Perchè dobbiamo dire no al TTIP. 11 ottobre giornata di di mobilitazione internazionale
Nei prossimi giorni si terranno in Italia ed in tutta Europa iniziative di sensibilizzazione e protesta contro Il TTIP – Transatlantic Trade and Investment Partnership – che culmineranno l’11 ottobre con la giornata di mobilitazione internazionale. Inoltre il 20 ottobre la Camera discuterà la mozione presentata da SEL e quella del Movimento 5 stelle, un passaggio obbligato per provare a squarciare il velo di segretezza ed il mancato coinvoligmento del Parlamento che hanno caratterizzato sino ad oggi il negoziato. Proprio alla Camera qualche giorno fa nel suo intervento ad un convegno , il premio Nobel per l’Economia Joseph Stiglitz aveva messo a nudo i seri rischi derivanti dal TTIP ed esortato i paesi UE a ritirarsi dal negoziato. Un negoziato lungo e complesso, come dimostrano le recenti controversie all’interno della neoeletta Commissione, in particolare riguardo all’inclusione del cosiddetto ISDS (Investor to State Dispute-settlement) la clausola arbitrale che darebbe massimo risalto agli interessi delle imprese. Ciononostante, e nonostante i gravi rischi di ricadute negative sui diritti dei lavoratori e sull’ambiente, già notevolmente compressi e indeboliti dall’azione del governo Renzi, lo stesso governo, e lo stesso Presidente del Consiglio, vorrebbero spingere il piede sull’acceleratore proprio in questi ultimi mesi di presidenza UE. Per questo oggi è necessario ed urgente fare sentire la nostra voce, quella di Sinistra Ecologia Libertà accanto a quella dei movimenti e della Campagna Stop-TTIP alla quale abbiamo aderito sin dall’inizio. Il TTIP è qualcosa di più di un semplice negoziato di liberalizzazione commerciale. Rimette in discussione ancora una volta il primato della politica, e quindi della democrazia, nei confronti dei poteri forti dell´economia. Se venisse approvato dal Parlamento europeo e da quello statunitense, alla fine dell’iter negoziale in corso, andrebbe infatti a incidere sui diritti del lavoro e dell’ambiente e anche su quelli di cittadinanza.
Il primo obiettivo del TTIP, infatti, non saranno le barriere tariffarie, già abbastanza basse tra Europa e USA, bensì quelle “non tariffarie”, che riguardano gli standard di sicurezza e di qualità della vita di tutti i cittadini: l’alimentazione, i servizi sanitari, i servizi sociali, le tutele e la sicurezza sul lavoro. Questo perché l´omologazione delle normative porterà inevitabilmente a un ribasso delle garanzie esistenti in Europa, molto più elevate rispetto a quelle del mercato deregolamentato a stelle e strisce.
Per fare un esempio: in base al referendum del 2012, in Italia l’acqua è un bene pubblico; ma le aziende statunitensi potrebbero contestare questo principio, sancito dalla volontà popolare, in base alla legislazione USA per la quale l’acqua è una merce come un´altra. Il nocciolo dell’accordo, che si voleva chiudere entro il 2014 ma che ora pare slitterà al 2015, è la tutela dell’investitore e della proprietà privata, grazie alla costituzione di un organismo di risoluzione delle controversie al quale le aziende potranno appellarsi per rivalersi su governi colpevoli, a loro dire, di averle ostacolate. Avrebbe l’ultima parola uno specifico ISDS (Investor-State Dispute Settlement), un meccanismo di risoluzione dei contenziosi tra investitori e Stati sul modello di quello già esistente del WTO, con probabile sede a Washington presso la Banca Mondiale. Una privatizzazione della giustizia che mette sullo stesso piano uno stato e un’azienda. Da questo punto di vista, qualsiasi regolamentazione pubblica rischierà di essere messa in secondo piano rispetto alle esigenze di aziende e mercati.
Uno dei settori più delicati che potrebbero essere modificati dall´accordo TTIP è quello dell´alimentazione, con l´impossibilità – per esempio – di vietare gli OGM per l’alimentazione umana, perfettamente legali negli Stati Uniti. Ma anche l´uso di ormoni nell’allevamento o di pesticidi in agricoltura. E potrebbe venir meno il principio della tutela della diversità e della territorialità del prodotto. Svanirebbero infatti le faticose e costose costruzioni delle DOP e IGP, i marchi europei che garantiscono qualità e territorialità (anche) al made in Italy. Prodotti frutto di investimento e saperi centenari verrebbero equiparati al Parmesan dell’Iowa o all’aceto balsamico di San Francisco, senza potersi difendere da una simile concorrenza.
Acqua, trasporti ed energia sono invece i settori nei quali sarebbe più alto il rischio di privatizzazione, e le comunità che si opponessero sarebbero passibili di denuncia davanti al tribunale competente. Sull’energia si pone anche il problema dell’estrazione dello shale gas e dello shale oil (il gas e il petrolio di scisto) attraverso il cosiddetto fracking, cioè la frantumazione in profondità, che tante sciagure ambientali sta creando negli Stati Uniti. Il divieto esistente in Francia per questo tipo di estrazione potrebbe essere contestato dalle imprese che si ritenessero danneggiate. Anche le regole di tutela della privacy potrebbero essere contestate dai giganti statunitensi della comunicazione.
La vittima più clamorosa di questi accordi, però, sarebbe la democrazia. I cittadini, dalla firma dei trattati in poi, non avrebbero più potere di scelta autonoma in materia ambientale, economica e sociale perché vincolati a monte. Addirittura il diritto al lavoro potrebbe essere messo in discussione, se dovesse prevalere il diritto di assumere secondo le condizioni contrattuali degli USA, Paese nel quale non esistono contratti nazionali, e che non ha sottoscritto le normative antidiscriminatorie OIT per motivi di genere o etnia.
Non è la prima volta che si cerca di concludere un accordo di questo tipo. Già negli anni ’90 qualcosa di simile fu respinto (l’Accordo Multilaterale sugli Investimenti, MAI); e anche nelle Americhe naufragò l’ALCA proposto da George W. Bush ai Paesi latinoamericani, basato sugli stessi principi.
Con il TTIP l’Europa, già duramente provata dalle politiche di austerity che limitano seriamente il margine di manovra dei governi nazionali, si avvicinerebbe sempre più al modello sociale ed economico statunitense. Una situazione già sperimentata dal Messico che nel 1994, sottoscrivendo gli accordi NAFTA con USA e Canada, ipotecò seriamente la sua sovranità politica ed economica. Oggi, tra il Messico che voleva diventare “socio” degli Stati Uniti e il ricco vicino del Nord si alza un muro controllato a vista e sui campi degli agricoltori rovinati dagli accordi si coltiva la materia prima per il narcotraffico.
L’Europa per fortuna non è il Messico. Ma se le logiche sono le stesse, anche noi rischiamo che l´originale modello universalistico dei diritti, costruito in decenni di lotte sociali, ambientali e sindacali, diventi storia passata. L’Europa “socia” degli Stati Uniti, a queste condizioni, metterebbe fine al sogno della costruzione di un’area di civiltà, valori condivisi e diritti reciprocamente riconosciuti.
Dopo lo stallo dei negoziati in sede WTO (Doha round) per il raggiungimento di un accordo quadro su agricoltura e servizi, Washington sta applicando la strategia del ragno, lavora per tessere una trama di accordi commerciali che, sommati tra loro, equivarranno a quegli accordi che non si è riusciti a firmare a Ginevra. Al momento gli USA, oltre al TTIP, in un altro negoziato decisivo: il TPP, un’alleanza con i Paesi emergenti del Pacifico che esclude però la Cina. Questi accordi rappresentano la priorità assoluta della diplomazia economica statunitense, in quanto dovrebbero consolidare i rapporti commerciali e finanziari con due aree tradizionalmente alleate e, soprattutto, con due ricchissimi mercati. E’ il tentativo, per via commerciale, di sfruttare una posizione politica di forza che risale alla fine della Seconda Guerra. Con più vantaggi per le grandi corporations con sede negli Stati Uniti rispetto alle altrettanto beneficiarie multinazionali europee, soprattutto tedesche, che operano sul marcato americano. Ed è questo l’altro punto da considerare: il TTIP porterà benefici solo alle aziende di grandi dimensioni e con capacità di investimento sul mercato internazionale, mentre sarà mortale per il tessuto delle piccole e medie imprese che avranno ancora una concorrenza più spietata di quanto non ci sia già da parte dei grandi gruppi multinazionali.
Il dibattito si sta ora animando e le contraddizioni vengono alla luce. Il Trattato “pilota” per arrivare al TTIP è quello che si sta concludendo con il Canada e il “rumore” del malcontento di diversi settori economici francesi e tedeschi si aggiunge al netto rifiuto delle categorie mediterranee della piccola e media proprietà agricola. Dobbiamo informare i cittadini e fare pressione sui parlamentari europei perché questa è l’ultima chiamata per ribadire l’autonomia dell’Europa rispetto all’omologazione globale basata sugli interessi dei grandi gruppi economici, e anche per rilanciare il percorso dell’Europa su nuove basi, dicendo no da subito al TTIP. Un accordo con gli Stati Uniti potrebbe essere infatti di beneficio per tutti, ma condotto con trasparenza, tutelando il parere vincolante dei cittadini rispetto agli interessi economici, livellando verso l’alto e non verso il basso i diritti della terra e delle persone.