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Mercoledì, 30 aprile 2014

Piazza Tahrir non c’è più. L’Egitto nelle mani dei militari

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Il cambiamento positivo che le vicende di Piazza Tahrir nel 2011 sembravano aver impresso all’Egitto è ormai solo un ricordo sbiadito, mentre il nuovo regime, succeduto per colpo di mano – vero e proprio golpe – a quello islamista di Morsi, a cui era andata la palma della vittoria elettorale dopo la cacciata di Mubarak, mostra in maniera sempre più dichiarata la natura ferocemente autoritaria della sua ispirazione. La repressione del generale Abdel Fattah al Sisi e dell’entourage di stretta obbedienza militare che lo sostiene, si è concretizzata in questi giorni – senza che il silenzio assordante della cosiddetta comunità internazionale subisse qualche turbamento – nella condanna a morte in simultanea di 683 militanti dei Fratelli Musulmani già detenuti nelle carceri egiziane.

Del numero, che lascia interdetti, fa parte anche la guida spirituale dell’organizzazione, Mohammed Badie. E’ una furia repressiva, quella del gendarme al Sisi, destinata a colpire non solo gli affiliati e sostenitori dei Fratelli musulmani ma tutto quello che abbia i contorni del dissenso. In particolare è sotto tiro anche il Movimento 6 aprile, cioè la componente laica della grande rivolta popolare contro Mubarak di tre anni fa, messo fuori legge solo per il fatto di essere composto da gente che ragiona con la propria testa.

Il regime militare di al Sisi è fin dall’inizio della presa del potere – il fatale 9 luglio del 2013 – impegnato soprattutto in un’impresa repressiva che ha come obiettivo di fare terra bruciata intorno a sé, sradicando ogni possibile radice di critica , contestazione e organizzazione del dissenso. Nello stesso tempo il regime è impegnato nella costruzione di un immaginario pubblico imperniato sulla figura del generale al Sisi, rappresentato come il leone che ha salvato il paese dalla deriva islamista. Bar, negozi e chioschi mettono in bella mostra – secondo una tradizione ben consolidate in regimi dittatoriali – l’effigie del generale, assurto a icona nazionale. Il feticismo ha raggiunto notevoli livelli di impatto – raccontano le cronache – con la presenza di negozi forniti di tutta una linea di accessori ispirati al generale (magliette, tazze, biancheria intima, portachiavi eccetera). Non si tratta con tutta evidenza di un marketing, ma della strategia di costruzione l’Uomo del destino, il punto di riferimento della nuova era, il leone che può tutto e a cui tutto è concesso, compreso il bagno di sangue dei suoi oppositori.

L’Egitto è oggi un Paese sempre più diviso, attraversato da contraddizioni gigantesche, colpito ripetutamente da attentati terroristici di varia e complicata origine – per esempio quelli che la principale organizzazione terroristica attiva nel Paese, Ansar Bayt al Maqdis (sostenitori di Gerusalemme), ha rivendicato – e dalla volontà invece del nuovo regime di attribuire rapidamente tutto ciò che abbia a che fare con azioni terroristiche ai Fratelli Musulmani. Che sono una vasta e ramificata organizzazione, con larghissimo seguito nella società egiziana e con connotazioni di ispirazione fortemente fondamentalista nell’ azione politica e sociale, tale da suscitare timori di ogni tipo presso i Paesi occidentali. Ma affidarsi in toto all’opera di al Sisi per ristabilire l’ordine nel Paese comporterà altri disastri per l’Occidente. Il rischio che nulla sarà recuperabile in quel Paese, chiudendo gli occhi di fronte a dinamiche di repressione come quelle in atto, al contrario dell’ostilità subito manifestata dai Paesi occidentali verso le mosse autoritarie  e le intemperanze fondamentalista del regime di Morsi, e della benevolenza subito elargita verso il colpo dii Stato di un anno fa.

Morsi fu eletto presidente grazie ai cambiamenti avvenuti nel Paese in seguito alle vicende di piazza Tahrir: una nuova costituzioni e le elezioni del giugno 2012. Poi fu e sbalzato di sella dopo un anno di opposizione continua dei suoi avversari – in primis il potere militare – e a causa della sua pericolosa e ottusa  presunzione di risolvere la crisi assumendo sulla propria persona un potere crescente. La negazione insomma di quanto di nuovo, vivo e positivo piazza Tahrir aveva prodotto e per cui molte giovani vite erano state spezzate negli scontri contro Mubarak. Il 2012 fu un anno nero per Morsi e per l’Egitto, per le grandi speranze che avevano animato la parte più giovane e viva della società egiziana, a cui pose fine il golpe militare del luglio del 2013, con l’ultimatum dell’esercito – vera colonna portante del potere e dei poteri del Paese – a Morsi di andarsene dalla carica di presidente e con  i blindati di nuovo nelle strade del Cairo.

Ora siamo al nuovo regime, militare che più non si potrebbe, che tenta di consolidarsi per via della repressione, dell’imprigionamento massiccio degli oppositori politici, dell’esecuzione di centinaia di condanne a morte per ragioni politiche.

La cautissima ministra Mogherini, incontrando Amnesty Internazional nella figura del suo presidente italiano Antonio Marchesi, ha detto che bisogna prevenire i conflitti in ogni direzione e intervenire per difendere i diritti violati. La solita solfa senza nessun seguito insomma di quel vacuo politically correct di un’Europa priva di qualsiasi idea e strategia di politica estera, con alle spalle gli Stati uniti, che mai come oggi hanno la priorità soprattutto di potersi fidare dei guardiani di un Paese come l’Egitto collocato in una zona decisamente strategica per i loro interessi

Non si può che essere d’accordo, sul senso di quello che accade là, con Gad Lerner. Il quale tempestivamente ha scritto sul suo blog che le condanne a morte in Egitto aprono una contrapposizione drammatica, una guerra di fatto all’interno del mondo arabo sunnita. Gli Stati Uniti e L’Unione Europea si illudono se pensano di girare la testa dall’altra parte, lasciando fare il lavoro sporco a al-Sisi.

Una storia che non finisce mai, quella delle teste, perché l’Ue e gli Usa sanno girare troppo spesso la testa dall’altra parte, dopo aver dato lezioni a destra e a manca di regole democratiche.

 

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