Piras: tra Israele e Palestina è giunta l’ora dei caschi blu. La speranza può rinascere se l’Europa si assume le proprie responsabilità
Una missione parlamentare per verificare direttamente la situazione in Palestina, dopo le operazioni militari di Israele che nelle ultime settimane hanno causato quasi 2mila morti. È quella da cui sono appena rientrati un gruppo di deputati italiani, “guidati” dalla ex vice presidente del Parlamento europeo Luisa Morgantini, di cui faceva parte anche il rappresentante sardo di Sel (Sinistra ecologia libertà) a Montecitorio, Michele Piras. Il gruppo di parlamentari ha incontrato rappresentanti politici palestinesi, esponenti della sinistra israeliana che si oppone all’escalation militare e delle associazioni pacifiste, ha visitato ospedali, sedi di ONG e altre strutture a Gerusalemme, Hebron e Ramallah, ma non ha potuto entrare a Gaza per il blocco imposto dai militari dello stato ebraico. IteNovas ha intervistato Piras su questo viaggio, sue anche la foto che correda l’articolo.
Per chi è di sinistra la Palestina è da sempre un simbolo. Cosa hai trovato di diverso rispetto ai “miti” che ci siamo creati a distanza?
I miti sono fatti per essere distrutti. E il filo palestinismo di maniera di certa sinistra mi ha sempre infastidito, sopratutto per la sua staticità e per il suo dogmatismo. Tutto invece è in continuo movimento, come la costante pressione sui territori arabi dei coloni e della loro bulimia di terra. Altrettanto, Israele è qualcosa di profondamente diverso da ciò che era venticinque anni fa, ivi compresa la sua composizione etnica. La Palestina è un coacervo di contraddizioni, una realtà complessa. E se Gaza – nella risonanza mediatica che ha – rappresenta l’orrore della guerra guerreggiata, del massacro dei civili, dell’assedio, Hebron è l’apartheid, la guerra di posizione, il conflitto quotidiano, l’odio che si manifesta persino nei piccoli gesti dei bambini. E se una città come Tel Aviv, laica, progressista, ultramoderna, si pone come contraltare al fanatismo oscurantista degli ebrei ultraortodossi, anche in Palestina si sviluppa e resiste una società civile colta, aperta, curiosa, che attraversa a schiena dritta il conflitto e cerca strade di dialogo per una pace giusta, che fermi i bombardamenti ma che sappia anche rimuovere l’iniqua distribuzione delle risorse del territorio.
Nei tuoi post su internet hai indicato come speranza la sinistra israeliana, ma da fuori le azioni militari sembrano avere grande consenso nella popolazione. È realistico sperare che la situazione politica cambi davvero?
Non tutta la società israeliana è favorevole all’azione militare su Gaza o alla soluzione militare più in generale. La sinistra israeliana è debole come lo è in tutta Europa. Indebolita dalla crisi e dal mutamenti etnico-demografici che, a partire dal crollo del Muro di Berlino, hanno trasformato la struttura sociale, concorrendo a rafforzare le posizioni della destra e della sua componente ultraortodossa. Se si va a Tel Aviv – di fatto una città “occidentale” – si scopre invece che un partito come Meretz, l’omologo israeliano di SEL, raggiunge alle elezioni municipali percentuali che sfiorano il 40%, e perde il Sindaco a favore dei Laburisti. Insomma, una partita fra cugini. La speranza la si (ri)costruisce nella quotidianità. La speranza sono le associazioni pacifiste israeliane che non hanno alcun problema a puntare l’indice contro le politiche del governo delle destre e l’occupazione dei territori. La speranza può rinascere se l’Europa si assume le sue responsabilità: quella di promuovere una forza di interposizione pacifica, di sostenere un concreto processo di pace: fine all’apartheid, fine dell’assedio e dell’embargo su Gaza, apertura di un corridoio che colleghi questa alla Cisgiordania. Infine, la garanzia internazionale per la linea dei “due popoli, due Stati”. All’Europa ed all’Occidente sono serviti 200 anni dalla Rivoluzione francese, interrotti da due guerre mondiali devastanti e da una miriade di conflitti “regionali” e sovranazionali per tutto l’800, per costruire il sistema politico che chiamiamo Democrazia.
L’ONU ha preso periodicamente posizioni molto dure sulla situazione a Gaza, ma non sembra essere servito. In che modo la comunità internazionale può intervenire concretamente per fermare il massacro?
Le risoluzioni non bastano se non vi è una conseguenza sul piano pratico. Io penso che in Palestina dovremmo pensare a una esperienza come quella che si è fatta in Libano con Unifil, come primo passo per tenere separate le parti. Inoltre a me pare che la Comunità internazionale negli ultimi anni stia assumendo sempre più una sorta di atteggiamento cerchiobottista. In altri termini io non penso che Hamas sia una organizzazione terroristica. Almeno non in senso stretto. Usa certamente le armi e si alimenta economicamente attraverso modalità discutibili. Ma Hamas deve la sua espansione alla spirale di odio-violenza-guerra alimentata dall’atteggiamento inaccettabile che continua a tenere Israele, quasi che non fosse palese il fallimento della strategia aggressiva e militare tenuta da questo Stato per decenni. Hamas va coinvolta nel processo di pace, altrimenti la pace non è possibile. Hamas deve essere convinta a sedersi attorno a un tavolo con Israele (e viceversa) e gli altri attori palestinesi e del Mondo arabo. Hamas è forte a Gaza, debole a Hebron, praticamente inesistente a Ramallah: non è un caso. Gaza infatti non è una città, ma un immenso campo profughi lungo 43km e profondo 10km, una immensa prigione senza via di fuga, nella quale vivono 1milione e 700mila persone, prevalentemente i rifugiati dell’occupazione del ’67 e i loro discendenti, senza la possibilità di commerciare, produrre, progredire. Gli stessi famigerati tunnel, di cui tanto si parla, nascono in risposta al blocco imposto dall’esercito israeliano, per far passare cibo, materiali per l’edilizia, prodotti di vario genere e – certamente – anche armi. L’estremismo cosiddetto non può che proliferare in questa situazione. La guerra lo alimenta, la pace lo svuota.
in Palestina dovremmo pensare a una esperienza come quella che si è fatta in Libano con Unifil
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kilo
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roberto tumminelli