Poliziotti che applaudono, non è una questione di mele marce
Che il Coisp (Coordinamento indipendente del sindacato di Polizia) organizzi, un anno fa, un oltraggioso sit-in a Ferrara, nei pressi dell’edificio dove la madre di Federico Alfrovandi lavora, o che l’assemblea congressuale del Sap (Sindacato autonomo di Polizia), pochi giorni fa a Rimini tributi un formidabile applauso ai colleghi colpevoli della morte del giovane Federico Aldrovandi, non è una questione di mele marce. Alfano se lo annoti tra i suoi appunti, se è in grado di capire gli obblighi che il suo incarico gli assegna, soprattutto dopo la vicenda che ha avuto al centro il Sap.
Non è questione di mele marce, è questione di una cultura, di un’idea del ruolo, dell’identità di ognuno e del gruppo di appartenenza, del rapporto con la cittadinanza, che sono fortemente in contrasto con il compito che lo Stato assegna alla sua Polizia (se lo Stato è democratico, la Polizia deve essere democratica), nel momento in cui le attribuisce la prerogativa esclusiva all’esercizio della forza in tempo di pace. E’ un aspetto che spesso sfugge, perché l’immaginario pubblico è occupato per lo più dallo scontro tra dimostranti e forze dell’ordine, dal contrasto militare, dal buono e dal cattivo, a parti inverse, secondo chi guarda.
Immaginate un ragazzo o una ragazza che di notte viene fermato. Ma anche di sera e anche se non ha nulla addosso che possa giustificare che gli agenti lo blocchino. Quella prerogativa pone un distanziamento psicologico e fattuale enorme tra un cittadino/cittadina qualsiasi e un agente nell’esercizio della sua funzione. Un punto questo che dovrebbe essere alla base della formazione permanente della Polizia di Stato di uno Stato democratico. Non si tratta di mele marce, si tratta di un deficit di cultura democratica, che non è un caratteristica attribuibile alla Polizia nel suo complesso – sono abbonata a un bimestrale redatto da poliziotti e di quel bimestrale condivido o apprezzo spesso gli articoli – ma di settori, temo non irrilevanti, della Polizia e di responsabili della Polizia (non tutti ma non pochi) che non si curano dell’andazzo ed esternano quando succede qualcosa per lo più prendendo corporativamente le difese dei poliziotti, con un’ enfasi impropria, come se si trattasse di fare la conta dei morti e feriti in un bollettino di guerra. Non lo ha fatto il capo della Polizia Pansa, sul recente sgradevole episodio di Roma, e non lo dovrebbe fare nessuno, facendola finita col gioco degli affetti, degno di un corpo e non di organismo dello Stato, con il tentativo al seguito di guadagnarsi una facile popolarità.
La standing ovation, con cui il congresso del Sap ha accolto in sala tre dei quattro agenti riconosciuti colpevoli in via definitiva della morte del giovane Federico Aldrovandi, mette in evidenza molti segni negativi di questa natura, di cui la politica dovrebbe occuparsi più seriamente di quanto sia stato fatto fino a questo momento. Il segno fortemente negativo, il peggiore perché non è casuale ma strutturante, è lo spirito di corpo, che prevale sulla fedeltà allo Stato, la complicità col corpo, che depotenzia l’obbligo per tutti e per ognuno di stare alla legge, l’appartenenza al corpo, che fa dire cose diverse su fatti simili, a partire dalla convenienza corporativa. In una nazione raffazzonata come la nostra, povera di spirito civico e di senso civile, lo spirito di corpo, di appartenenza, di complicità identitaria tocca parecchi ambiti sociali e molte categorie.
Ma se non si debbono fare sconti a nessuno, in nessun caso, questo vale in modo particolare quando si tratta del rapporto tra Polizia e cittadinanza, perché l’una al servizio dell’altra non può essere il mantra consolatorio delle giornate di festa della Polizia ma la sfida dei giorni normali e soprattutto delle occasioni di emergenza. L’atteggiamento negativo che ha mosso gli applausi a Rimini è lo spirito di corpo che prevale sullo spirito di servizio allo Stato e alla Repubblica, che fa sentire quei poliziotti come un tutt’uno, un blocco fuso che annulla le responsabilità di ognuno e chiama tutti a rispondere come un sol uomo al pericolo esterno, a respingere la condanna inflitta a uno perché i terminali psicologici del corpo trasmettono la percezione della condanna a ogni individuo del blocco. Perché la loro forza non è l’essere al servizio della Repubblica ma l’essere parte di “quel” corpo. E’ questo spirito di corpo che uccide i sentimenti di compassione verso una madre che ha perso il figlio e che fa farfugliare parole davvero imbarazzanti al dirigente del Sap ai giornalisti che lo intervistano il giorno dopo.
Il ministro Alfano, che occupa il dicastero chiave dell’Interno, continua a essere, in ogni occasione, terribilmente al di sotto di quanto il suo compito richiederebbe e il suo atteggiamento non aiuta certo a dirimere le questioni. Anzi le aggrava quando, per esempio, dice di essere contrarissimo al numero identificativo per i poliziotti impegnati nell’ordine pubblico. E si prodiga anche lui in esternazioni tipiche da “corpo”, lui che è ministro della Repubblica e aspira ad avere un ruolo in Europa. Il numero identificativo, sentenzia, contraddice tutte le regole della sicurezza (sicurezza in che senso? Lui non è anche responsabile dell’intelligence italiana? Oppure banalmente intende la “sicurezza”come impunità per il singolo?). E le forze dell’ordine, ripete spesso in questi giorni, rischiano la vita e noi li vogliamo proteggere (“noi” chi, lui Alfano,e quelli che la pensano come lui?).
E poi finge di non sapere che l’identificativo è appannaggio di molti Stati europei ed è anche al centro di una direttiva europea, ovviamente disattesa, che prevedeva sin dal 19 settembre 2001 – guarda caso dopo la terribile estate del G8 di Genova – il recepimento del Codice Europeo di etica per la Polizia, con l’invito a 45 Stati membri del Consiglio di mettere nero su bianco un chiaro regolamento deontologico nell’ambito della sicurezza pubblica. Di cui fa parte il numero identificativo, come si può constatare in Grecia, Spagna, Francia, Germania, Svezia, Regno Unito e altri.
Intanto in Senato giace un inadeguato testo sulla tortura già approvato in prima lettura. Fortemente inadeguato perché non prevede l’aggravante derivante dal ruolo di chi infligge atti identificabili come di tortura. Quello di tutore dell’ordine pubblico, per esempio. Ma è già qualcosa da cui ripartire, in un Paese di stato di diritto molto claudicante come il nostro. Il premier Renzi e la sua maggioranza così amante della’agire in velocità potrebbero darsi una mossa. Santa, in questo caso.
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Fabio Roggiolani
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Fabio Roggiolani
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ale