Quelle foto che ci mettono davanti alle nostre responsabilità
Sono fortemente ostile al cannibalismo estetico della morte, all’esposizione mediatica dei corpi delle vittime, alla teatralizzazione scenica delle tragedie del mare, con quella reiterazione di una semantica dell’immagine che si nutre del dolore incarnato, spesso atroce, di creature umane, scomponendo quel dolore nella serialità mediatica di schegge senza senso e producendo soltanto banalizzante assuefazione del grande pubblico e della performance dei social.
Ma sono grata oggi al Manifesto per la scelta che ha fatto di aprire con la fotografia del bambino siriano senza nome, arrivato morto sulla spiaggia di Bodrum in Turchia. Foto a cui il Manifesto dedica la metà superiore della prima pagina. Ha fatto bene, la redazione del Manifesto, a fare una tale scelta, perché la foto fa l’effetto di un pugno al cuore. E ce n’è ormai bisogno di questi pugni. E’ infatti una foto scarna e essenziale come quello che rappresenta: la distanza tra noi e lui, quel bambino sconosciuto, che è come tutti i bambini che conosciamo, in quella postura che sembra di abbandono fiducioso che qualcuno pensi a lui e invece non potrà mai sapere come malamente fosse riposta la fiducia sua e dei grandi – sua madre, suo padre -che con cura lo hanno abbigliato per la fuga. Foto ridotta al minimo dei dettagli, ma che ha la forza simbolica di contenere tutto il nostro mondo, nei suoi rapporti col mondo e con le nostre responsabilità di ieri e di oggi. Per questo mette in risalto ancora di più l’insopportabile rumore del chiacchiericcio mediatico, pronto come sempre a versare il tributo delle lacrime del coccodrillo. E, dopo i piagnistei di maniera, pronti tutti a voltare lo sguardo, che questa foto invece in qualche modo incatena. Mi auguro che incateni.
Se credessi in Dio penserei che Dio stesso abbia voluto spingere fino a noi quella creatura che le acque della fuga hanno crudelmente travolto, e abbia fatto in modo, proprio Dio, che giacesse in quella postura di abbandono fiducioso per darci il senso della nostra insensata assuefazione al male del mondo e alla smemoratezza delle nostre responsabilità. Nessuno più si interroga, per esempio, sul perché di guerre, conflitti, fughe e massacri. E via così. E lo abbia fatto, Dio, anche per darci la misura della sua ira.
Ma non credo in nessun dio e so che quella creatura è arrivata dove è arrivata per la forza delle onde e il gioco delle correnti. Voglio però sperare lo stesso che la fotografia lasci un segno, come la mano del bambino che malamente si intravvede in un’altra fotografia, tra un viluppo di braccia di adulti, sui cui un poliziotto ha tracciato un numero. Con inchiostro nero persistente ci dicono le cronache. Da piangere
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haitao