Renzi come la Troika
Sulla Stampa di oggi (9 ottobre), Marcello Sorgi scrive che Matteo Renzi esce vincitore da una partita decisiva per il futuro del governo. Vincitore, precisa l’editorialista del quotidiano torinese, sul fronte interno – il Pd – e su quello esterno – l’Europa. Ma scrivendo quello che scrive, Sorgi ha in mente soprattutto i dissidi interni al Pd, la resistenza di alcuni parlamentari di fronte ai diktat ultimativi del premier, come sempre soavemente annunciati nelle aule parlamentari dalla ministra Boschi, e le assillanti richieste di modifiche della sinistra interna, e i disordini al Senato e tutto il resto. Ma alla fine Renzi ce l’ha fatta, sottolinea Sorgi. Solo lui però può pensare – o forse finge di pensare – che le minoranze interne al Pd abbiano davvero pensato di sottrarsi all’obbedienza di fronte alla decisione del “loro” governo di ricorrere al voto di fiducia sul Jobs act. Non poteva succedere, perché tutto ciò avrebbe causato una crisi del governo Renzi. C’era certamente Forza Italia pronta a aiutare, ma proprio un decisivo pronto soccorso di quel partito avrebbe immediatamente messo in discussione la sopravvivenza del governo. Perché ipocritamente, come è nelle corde italiche, se ne nega la natura di governo retto dal determinante sostegno di Berlusconi e il voto degli azzuri a sostegno di una questione diversa da quelle contemplate nel patto del Nazareno avrebbe reso insostenibile la sussistenza dell’attuale esecutivo. E loro, gli oppositori interni al Pd, una crisi di governo semplicemente non la vogliono, come a ogni occasione ripetono. Sono una sinistra di opinione, un insieme di biografie individuali, magari nobili alcune, ma non certo intenzionate a tradurre il dissenso in azione autonoma. Basta loro far sapere all’opinione pubblica di riferimento che ci sono, esistono e riempiono ancora una casella.
Pippo Civati, il più audace, è anche il più solo in questa audacia. Difficile pretendere che faccia l’eroe.
Così stanno le cose e se il primo round della partita sul Jobs Act salva per il momento il governo Renzi non salva certo il Paese dalla crisi lo sta riducendo ko, come tutti gli indicatori continuano impietosamente a indicare.
Se Renzi non ce la fa arriva la Troika, è il mantra mediatico, alimentato da tutte le parti. Ma la Troika sta agendo in Italia per interposta persona – da Monti a Renzi – e, la Troika, prima che i tecnocrati di Bruxelles in carne ed ossa, magari insediati a Palazzo Chigi, à soprattutto un programma da realizzare, una serie di prospettive strategiche a cui adeguarsi, a cui sacrificare quel che resta di costituzionalmente orientato nel funzionamento delle istituzioni, nei rapporti sociali in materia di lavoro e di welfare, nell’applicazione delle regole democratiche.
L’importanza del Jobs Act e i tempi del voto in Parlamento sono stati due obiettivi renziani pensati insieme fin dall’inizio e questo le minoranze del Pd lo sapevano bene. La data dell’otto ottobre, fissata per il voto al Senato su stringente richiesta del governo, era la stessa del vertice europeo sull’occupazione, appositamente convocato a Milano dallo stesso Renzi, nella sua qualità di leader del semestre di presidenza italiana, Al vertice ha partecipato tutto il ghota del potere comunitario, dalla potente Merkel al debilitato Hollande, dall’ancora in carica Barroso all’egualmente ancora in carica Van Rompuy (la nuova Commissione si deve ancora insediare), tutti massimamente plaudenti nei confronti del premier italiano. La Troika è la politica messa in atto da Renzi e sono i suoi balletti sul continuare a chiedere la flessibilità, che non è nelle intenzioni di Bruxelle concedere, mentre si procede sulla sostanza delle misure che Bruxellea chiede, fino alla completa delega in bianco al governo sul mercato del lavoro
L’accelerazione impressa da Matteo Renzi nel suo “semestre europeo” incide qualitativamente sui terreni fondamentali che l’Europa dell’austerity e dell’ossessione dei vincoli di spesa ha messo sotto schiaffo. La questione sociale è infatti ormai posta anche in Italia nei termini di un azzeramento di tutto ciò che era sopravvissuto da altre stagioni di quella “civiltà del lavoro” costituzionalmente fondata, che sembra ormai appartenere alla preistoria del genere umano. Passa così in modo definitivo, come unica chance della vita delle giovani generazioni, che non hanno mai conosciuto l’articolo 18, mai sperimentato una logica diversa dall’endemica condizione di esclusi o disponibili a qualunque rapporto di lavoro, l’idea della giungla sociale, del dumping sociale, della competizione a tutti i livelli, a partire da quello tra individui, che è il brand incantatore del modello neo liberista. Jobs Act? No, meglio Jump our business, come ha suggerito maliziosamente Melania Mazzucco.
E la questione democratica è ormai preoccupazione di pochi affezionati, perché il disincanto democratico è oggi un male dell’anima, come mostra l’indifferenza verso le scelte che sono state compiute in materia. Il bluff delle province, per esempio, svela bene l’inganno, Le hanno chiamate baracconi, enti inutili, covi di fannulloni, fonte di spese parassitarie. Il governo Renzi ne ha celebrato l’abolizione come fosse il funerale degli sprechi di Stato. E invece stanno lì. Come e più di prima. Con i loro vertici, eletti solo dai sindaci e dai consiglieri comunali, anziché dal popolo, ma sempre seduti a gestire nomine, competenze, servizi. Ne parla così l’Espresso in un servizio che rimette in scena uno dei tanti infingimenti politici che hanno intrattenuto per mesi il blablare dei nostrani talk show e alimentato le perfomances comunicative in salsa pop del premier. Partitocrazia: solo questo subentra alla rappresentanza per elezioni, deficitaria quanto si vuole ma almeno per una parte espressione del popolo. Partitocrazia intessuta di accordi trasversali di ogni tipo, che molto più di quelli fatti da gente eletta e in qualche misura controllabile dall’esterno, meglio può sfuggire al controllo democratico.
Ma ovviamente tutte le partite si possono riaprire, anche quelle finite malissimo come le attuali.
Sel, nella manifestazione del 4 ottobre a Roma, ha lanciato la proposta di una coalizione dei diritti e del lavoro. Se sarà accolta, soprattutto se andrà anche molto oltre Sel e oltre gli ospiti/le ospiti di valore che hanno partecipato e parlato alla manifestazione, se si avrà la forza di farla diventare davvero la pratica condivisa da e di molti, potrà costituire un’occasione positiva, offrire a tutti quelli che si oppongono al governo Renzi un modo per mettere insieme utilmente le forze, e costruire – cominciare almeno a costruire –quell’alternativa che oggi appare irrealizzabile.
Le partite insomma non solo si possono riaprire ma è bene sempre tentare di riaprirle.
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