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Lunedì, 17 marzo 2014

Renzi un leader della post modernità populista

Gianni Cuperlo, l’esponente di maggior spicco della minoranza Pd, uscito sconfitto nella competizione con Matteo Renzi per la leadership del partito, dalle colonne della Repubblica del 16 marzo invita il suo segretario, diventato nel frattempo premier, a non cedere alla tentazione dell’autosufficienza e soprattutto a non farsi irretire nelle spirali del plebiscitarismo. Il vecchio secolo, ricorda Cuperlo, adottò il plebiscitarismo per rispondere alla crisi politico-istituzionale dell’epoca e questa scelta non fu, sottintende, un pranzo di gala. Il che ovviamente è vero sul piano storico, ma Renzi, da tutti i punti di vista, non ha proprio nulla a che fare col vecchio secolo e se ha – come ha – nella sua azione politica tentazioni plebiscitarie e risvolti populisti, questi aspetti portano tutti – per attitudine culturale e calcolo strumentale del protagonista – il segno di una convinta collocazione nella post modernità.

Dissacratoria e senza ideologie né miti, né narrazioni. E con approcci alle procedure politico-istituzionali molto disinvolti, segnati da quel disincanto democratico, che è tipico della contemporaneità. Il modo di intendere la politica in chiave populista caratterizza oggi l’azione di molti leader, al di là delle storie di provenienza e delle filiere elettorali che li portano sulla ribalta e al di là, soprattutto, delle densità ideologica con cui l’azione populista si manifesta. Tutto ciò è iscritto, ci piaccia o non ci piaccia, nella crisi politico-istituzionale senza precedenti della contemporaneità. A essa la sinistra non ha saputo storicamente rispondere e Renzi vive la sua impresa politica da leader della post modernità, con tutti gli ingredienti di questa fase. Perché lui è così.

Il nuovo inquilino di Palazzo Chigi è infatti – a dosi più o meno omeopatiche, abilmente calibrate a seconda delle occasioni – un leader post moderno, pop e populista e la minoranza del Pd sa, o dovrebbe sapere, che la sua strabiliante vittoria– fin nelle regioni che furono attraversate nell’anima dalla storia comunista – segna la prima radicale soluzione di continuità nella vicenda degli eredi del vecchio Pci, ne infrange gli apparati concettuali ancora novecenteschi, rompe i nessi e i riferimenti, scombina quella filiera di congelata continuità che è durata decenni. Un sostanziale immobilismo politico, dove hanno contato soprattutto le rendite di posizione e le biografie personali dei vari personaggi di spicco o capi corrente, con movimentazioni tattiche del partito di pura autoconservazione e molto timore, da parte di tutti, di rompere il quadro degli equilibri costituiti e mettersi davvero in gioco.

Una radicale rottura invece, quella di Renzi, un mettersi davvero in gioco, che sbaraglia implacabile l’approccio concettuale alla politica, la semantica istituzionale, il messaggio mediatico della vecchia guardia. Questo è avvenuto ben al di là delle previsioni. E lui gioca la sua partita in una dimensione che per il Pd è inedita e spiazzante, in velocità e in presa diretta. Fuori dai canoni. Come un capitan Findus very pop bypassa le regole, occupa la scena, trasmette i suoi messaggi in connessione con chi vuole – chi guadagna intorno ai milleduecentocinquanta euro al mese, questa volta, nella conferenza stampa di quel suo memorabile “mercoledì da leoni” in cui ha promesso gli ottantacinque euro netti al mese a chi stia a quel livello di stipendio.

Non è stata certo una conferenza stampa canonica. E’ stato soprattutto un intendersi tra lui e quell’indistinta platea a cui il messaggio era diretto. Quello di Renzi è però un approccio populista iper post moderno, a-ideologico, leggero, erratico, una modalità di muoversi sulla scia del desiderio personale di “prendere il potere” ma senza una strategia di periodo compiuta. Nella conferenza stampa Renzi ha voluto attirare l’ attenzione di quella fascia di stipendiati e stipendiate – ha citato le maestre, che si potranno comprare qualche libro in più con quell’aumento – attivando un metaforico “a me gli occhi”, per inculcare loro la certezza che dovevano dare retta soltanto a lui.

Andando oltre la raffica di domande della stampa assiepata intorno a lui, infischiandosene platealmente della mediazione comunicativa di quelle domande e puntigliose osservazioni, che potevano deviare – e lui proprio non voleva – l’attenzione dei diretti interessati – le maestre – dal “prodotto” del suo governo. Marketing politico, non ci sono dubbi, ma certamente di grande efficacia. Serve tecnica e mestiere per piazzare un prodotto. Serve tecnica e mestiere per veicolare a far accogliere in diretta un messaggio politico. Che non è altro, nella logica post moderna, che un prodotto. Non è uno scherzo. Renzi è un vero maestro. Basta intendersi in che senso. Il populismo c’entra.

La politica della modernità democratica aveva costruito potenti strumenti di mediazione tra lo Stato e i cittadini, tra i vertici del potere e il popolo, tra i rappresentanti e i rappresentati. Il popolo intanto, popolo che aveva il potere di scegliere e decidere col voto; popolo costituzionalizzato come fonte della sovranità, nelle cui mani era racchiuso il potere di legittimare dal basso i poteri piramidali verso l’alto. La rappresentanza democratica che in nome del popolo legifera, l’esecutivo che governa perché investito dalla fiducia del Parlamento. Fino al presidente della Repubblica, eletto dai grandi elettori di Camera e Senato, legittimati a essere grandi elettori dal voto popolare. E poi l’insieme dei poteri, i corpi intermedi, i partiti e da un certo punto in poi il potere mediatico, con cui fare i conti.

La politica della post modernità è tale proprio perché quella complessa macchina politico-istituzionale sta deragliando o è deragliata. Ed è, questo deragliamento, un aspetto politico centrale per capire come vadano le cose. Perché è proprio attraverso le faglie della crisi e i deficit di alternative, che si riaffacciano vocazioni plebiscitarie già sperimentate nel secolo scorso. In altre salse ovviamente, ma accomunate ancora una volta dall’insofferenza verso tutto ciò che si frappone tra il leader e il suo popolo. O il suo elettorato, oggi. O semplicemente l’atomizzato e frastagliato mondo dei sostenitori di turno. Il popolo non è più sovrano. Deve solo “acconsentire”. Alle élites dà fastidio, perché fa impaccio a che si dispieghino le puntigliose razionalità contabili di banche, vincoli, tecnocrazie. E il popolo a sua volta odia le élites ed è alla ricerca del capo salvifico.

In Italia la tentazione non è mai cessata. Che si riaffermino i populismi, nell’epoca della crisi, è inevitabile. Ce ne sono di quelli connotati pesantemente in senso reazionario – in Europa pullulano ormai – ma possono essercene anche senza una precisa ideologia, rappresentare soprattutto una modalità politica molto post moderna e financo pop. Ce ne corre tra il populismo leghista della prima ora, col Carroccio imbandierato e i riti fondativi alle sorgenti del Po, e il modo di fare di Renzi, senza miti né narrazioni, tutto racchiuso nella velocità del “qui e ora” e nella promessa di rendere efficiente il sistema Italia. Ma nello stesso tempo, con Renzi, ed è questo il punto, è come se lo spazio di mediazione, ogni spazio di mediazione, tra lui e l’elettorato/popolo –più popolo che elettorato? – risultasse assorbito nello scambio diretto e fortemente magnetico del momento. In quello spazio non c’è il Parlamento , non ci sono né regole né procedure né impegni a scadenza. O ci sono ma, nel messaggio del capo ma, ahinoi, spesso anche nei fatti, non contano niente. C’è la sua parola, del leader, la sua sfida, il suo andare con chi lo segue sulla parola. La crisi dell’antropologia umana della modernità democratica fornisce le ragioni e l’appeal seduttivo per un approccio alla politica con tentazioni di stampo populista. Una sfida democratica per chi è convinto che la politica debba essere altra cosa.

 

Commenti

  • francesco

    “La politica deve essere un’altra cosa…” Condivido in pieno!

    MILANO.SGOMBERATA L’OFFICINA DEI BENI COMUNI.
    Decine di poliziotti e carabinieri stanno sgomberando questa mattina l’Officina dei Beni Comuni di via Livigno a Milano. Il collettivo degli occupanti aveva preso possesso lo scorso 7 settembre dell’edificio, di proprietà comunale, all’angolo tra via Jenner e via Livigno dopo essere stati sgomberati da un’altra palazzina in via Arbe. La palazzina occupata in via Livigno in questi mesi aveva visto crescere una vasta attività sociale dell’Officina Beni Comuni ma non aveva mai fatto sconti alla giunta comunale di Pisapia. Riteniamo inaccettabile che il Comune di Milano, attraverso la Banca BNP, stia mettendo all’asta numerosi edifici comunali preda di speculazioni per favorire i soliti affaristi di mestiere , mentre in campagna elettorale il sindaco di Milano aveva promesso di trovare spazio per le associazioni che “svolgono attività sociali ” scrivevano gli occupanti quando erano passati all’azione occupando l’edificio sfitto .
    Con lo sgombero di oggi il Comune di Milano non torna solo a riprendersi una “sua proprietà” ma anche a segnare l’ostilità verso quegli spazi sociali occupati che non si mostrano subalterni alla giunta PD-SEL.
    “CONTROPIANO”, Lunedi 17/3/2014, ore 10.59

  • MGiovanna

    Renzi e Merkel: che pena! Il guerriero è diventato agnellino.Le capacità camaleontiche e comunicative del nostro hanno l’ennesima conferma, ma la conferma più importante è il disegno strategico economico politico culturale che si sta attuando. Sembra una P2 aggiornata, con un aggravante però : non c’è più una sinistra a fare da argine. E mi stupisce che Vendola, col suo acume politico, non l’abbia capito subito. Questi errori li paghiamo troppo, non li commettiamo. Sel si interroghi a fondo perché perfino il nostro ultimo congresso, con le sue timidezze, lentezze e ambiguità, è ormai lontano anni luce