Riccione, la relazione di Nichi Vendola
Sono passati solo tre anni da quell’ottobre del 2010, quando decidemmo a Firenze di fondare un partito per cercare di riaprire la partita. Eppure sembra un secolo. Il mondo attorno a noi e dentro di noi ha viaggiato ad una velocità tale da farci rischiare continuamente uno schianto fatale. Quel 2010 è davvero lontano.
E’ trascorsa un’intera era geologica della politica, è lunghissima la distanza che ci separa dalle speranze e dai progetti del nostro Congresso fondativo. Le classi dirigenti hanno impedito che l’Italia stremata dalla lunga egemonia del berlusconismo potesse cercare un’uscita a sinistra dalla crisi del sistema: piuttosto che fare i conti con la biografia culturale del Paese, si è messa sotto accusa la politica in quanto tale. La politica, nel tempo lungo del primato dei mercati e dei loro sacerdoti denominati “tecnici”, si è degradata a livello di mercato elettorale. Si è costruita l’idea (un vero feticcio mediatico), che la decisione politica dovesse essere esternalizzata, delegata ad un commissario, cioè ad una figura priva di legittimazione democratica eppure investita di sovranità, nel nome della tempestività e oggettività delle scelte da compiere. La democrazia compressa e compromessa dallo strapotere dei mercati finanziari ha ceduto spazio e norme di regolazione sociale al primato dell’interesse privato, ha smesso di progettare e si è estenuata nella gestione proprietaria e spesso predatoria della cosa pubblica. A vederla da vicino la politica è insieme impotente e onnipotente, non si affanna in grandi narrazioni ma controlla ossessivamente tutti gli snodi del potere minuto, non si pone più le domande di fondo (come viviamo? cosa produciamo? che valore diamo alle persone e ai loro diritti?) ma offre la propria intermediazione alla trama degli interessi frammentari dei clientes, delle lobbies, dei campanili, delle piccole patrie. Insomma si adatta alla rappresentazione plastica di una società polverizzata nei suoi interessi e nella sua struttura e unificata culturalmente nei simboli e nei riti dell’individualismo consumista. Si usa il degrado del costume pubblico per sottrarre terreno alla politica e dunque alla democrazia. La moralità si esaurisce nel curriculum del manager-tipo, icona di quella nuova ipocrisia, o meglio di quella nuova egemonia, che chiamano meritocrazia. Com’è noto anche il merito ha un valore prevalentemente di mercato. La casta dei tecnocrati e dei loro specialisti in economia si attribuisce un compito salvifico, una vera missione religiosa: salvaguardare ciascuna decisione dal terribile rischio di una verifica, di una prova di efficacia. La decisione, veloce e dura, è in sé il bene che si contrappone al male. La procedura democratica è il male. Se la democrazia viene presentata come elefantiasi burocratica, lentezza e caos normativo, chiacchiericcio politico e paralisi operativa, allora la ricerca di un principio di autorità ruzzolerà nel baratro delle pulsioni plebiscitarie e dell’invocazione autoritaria. Si comincia così, giorno dopo giorno, editoriale dopo editoriale, fiction dopo fiction, a convivere con la propria sudditanza, con i propri silenzi, con le proprie omertà. Fino al giorno in cui, nel nome della stabilità dei poteri costituiti, non incideranno col bisturi emergenziale nella carne viva di un nostro diritto o magari di un nostro privilegio, e a quel punto saremo pronti a imbracciare un forcone per pungere le altrui fobie e sollecitare le proprie isterie. La politica dunque può discutere di tutto tranne che dell’essenziale, può inebriarsi della trasparenza che si fa gossip, può strepitare nei talk show le proprie propagande, ma non può mica interrogare la vita, la debolezza, il dolore, la speranza, il genere, la generazione, la produzione. Nella punteggiatura dell’inquietudine esistenziale e dell’incertezza lavorativa il dolore sociale esplode come paura e smarrimento della e nella povertà. La politica non può chiedere un bilancio serio, autentico, non pubblicitario, sugli effetti delle scelte recessive compiute dai governi delle intese larghe e oblique, perché è inibito qualunque tentativo di verifica: quella medicina ha curato oppure ha compromesso seriamente la salute dell’ammalato?
Gli autori del crack sono stati chiamati a fornire le soluzioni tecniche…
La delegittimazione della politica è diventata la modalità con cui si è impedito un tentativo di analisi delle cause della crisi economica e dei suoi sviluppi. Questo per consentire agli autori del delitto (e cioè i protagonisti della finanziarizzazione drogata dei mercati mondiali) di tornare nei luoghi del crimine per perfezionarlo. Gli autori del crack sono stati chiamati a fornire le soluzioni tecniche, e cioè le formule magiche, per salvare l’economia. La ludopatia contemporanea, dalla sala bingo alla Borsa, è un fenomeno che meriterebbe la finezza descrittiva e la sonda introspettiva di Dostoevskij: ci restituisce uno spaccato inquietante della nostra contemporaneità, soprattutto quando i giocatori d’azzardo diventano gli eroi non di un casinò ma della nuova economia-mondo. Banche, società di finanza e di consulenza, mercati e piazze affari di tutto il mondo appaiono concentrate e unite nell’inglobare la decisione politica come funzione interna al calcolo degli interessi: qui hanno fatto dell’usura il cuore motore di un nuovo ciclo di produzione di ricchezza finanziaria, qui hanno segnato il limite invalicabile della sovranità politica, che non dovrà e non potrà mai più mettere in discussione il potere e la teologia del denaro, segnatamente del denaro che produce denaro. E loro, i signori dei bond e dei titoli tossici, cadranno sempre in piedi, perché le loro formidabili bolle speculative esploderanno in faccia all’economia reale. La crisi sarà rappresentata come un mistero, come figlia del fato o del caos, la metafisica della tecnica la renderà puro spirito, o sarà magari figlia del Sessantotto, o del fatto che abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità, o che abbiamo voluto scialare con il Welfare. Ed ecco che, in questo occultamento della realtà, tornano in campo proprio loro, gli specialisti dell’inquinamento finanziario, e si presentano come i veri esperti del disinquinamento. Per cui la crisi di sistema che investe l’intero mappamondo diventa l’occasione per portare a compimento la missione che la destra liberista persegue sulla scena esemplare del vecchio continente: fare tabula rasa delle democrazie postfasciste e delle costituzioni antifasciste, mettere in svendita il Novecento inteso come questione della redistribuzione e dell’eguaglianza, mettere all’asta porzioni crescenti di spazio pubblico, transitare dallo Stato sociale allo Stato penale, invocare più precarietà come antidoto alla disoccupazione, magari rivendicando il diritto al licenziamento (una licenza più che un diritto) per garantirsi un controllo disciplinare della forza lavoro. A noi, nel regresso italiano, è toccato di subire una destra che era ed è, ad un tempo, liberista e illiberale. Una destra che invoca un mercato senza regole e costumi sociali invece iper-regolati, che cerca di plasmare una sfera statale che cede al mercato il compito di regolare la vita pubblica e che trattiene per se le funzioni di regolatore della vita nuda, della vita privata. Insomma lo Stato che organizza il discernimento morale, che decide cosa è vita e cosa è morte, cosa è famiglia e cosa è amore, come un vero produttore istituzionale di codici morali che allenano le esistenze concrete al galateo dell’obbedienza. Ma la destra delle destre virulente e infette – quelle nazionaliste o secessioniste o razziste o populiste o tutte queste cose mescolate – si allea senza troppi problemi con la destra perbene delle elite borghesi, nel nome di un istinto nativo dell’italianità, di una sorta di codice genetico, che allude al “particolarismo” che impedì al nostro Risorgimento di essere l’equivalente della rivoluzione francese. Troppo spesso abbiamo dovuto fare i conti non con la potenza di una classe dirigente, ma con la prepotenza di una classe dominante. Ma a noi è capitato di avere in sequenza wagneriana una destra che fa la destra, un centro che fa la destra, una sinistra che fa il centro, e poi una sorta di destra globale (quella che comunemente chiamiamo col nome di emergenza) che ci impone il suo comando feroce ma si sottrae a qualunque contraddittorio e a qualunque verifica: perché si presenta in forma di tecnica, secondo la tecnica politica del camuffamento tecnico della politica: insomma si fanno come se fossero dettate dal cielo cose di destra, come tagliare la rete della protezione sociale o precarizzare fino allo stremo il lavoro incluso il lavoro a più alta specializzazione (si pensi ai nostri ricercatori, magari in odore di Premio Nobel, ma a mille euro al mese e con un contratto a tempo determinato). E poi si racconta con la connivenza di troppi la favola della tecnica, cioè della neutralità delle scelte. Come dire che un prelievo fiscale collocato quasi per intero sulle spalle del lavoro e dell’impresa è un destino, oppure che spingere il mercato creditizio fuori dall’economia reale è nella natura delle cose, oppure che spogliare il lavoro di qualità e di dignità è nelle prerogative della nuova fase di modernizzazione. Come dire che lo ius soli è tecnicamente un diritto esuberante e incompatibile con quell’emergenzialismo che ha bisogno di un esercito di riserva per il lavoro neo-servile, che ha bisogno di capri espiatori da sacrificare ai riti pagani con cui si esorcizza l’insicurezza sociale, che ha un disperato bisogno di inibire la visione destabilizzante dell’eguaglianza: persino per un bimbo che nasce qui, tra noi. E dunque tutto questo per dire che non c’è nulla di tecnico o di asettico o di neutrale nelle scelte che plasmano la vita sociale e che rimbalzano nelle nostre case, nelle nostre scuole, nelle nostre aziende, nelle nostre piazze, persino nelle nostre teste. Anzi. Un distillato di ideologia e politica che nutre la quotidianità delle persone e che condiziona l’esistenza materiale e simbolica di ognuno: eccola dunque questa nostra modernità contrapposta alla bellezza e nemica dell’umanità, che metabolizza una strage di migranti al largo di Lampedusa come un rogo di lavoratori cinesi nell’interno o nell’inferno di una fabbrichetta a Prato, eccola l’apologia compulsiva degli animali spiriti di un capitalismo sempre più irresponsabile, una sorta di nevrosi che usa persino l’innovazione come vettore di esclusione sociale e di implementazione delle potenze speculative, piuttosto che come leva di elevazione della qualità del lavoro e della qualità della vita.
C’è una migliore modernità da liberare, c’è un’altra innovazione da far valere…
In fondo noi non diciamo nulla di velleitariamente ideologico o poetico. C’è una migliore modernità da liberare, c’è un’altra innovazione da far valere. Parliamone fuori dalle accademie e dai cifrari degli specialisti. L’innovazione può cambiare l’agricoltura e il paesaggio rurale, valorizzandone peculiarità naturali e produttive e preservandone la dimensione identitaria, ma può anche far crescere nuova economia: a condizione che la sfida della sostenibilità muti modelli organizzativi, dall’irrigazione alla fertilizzazione delle campagne, aiuti i produttori e i consumatori a mettersi in rete per sconfiggere lo strapotere dell’intermediazione parassitaria, sappia collegarsi al tema cruciale della tutela della risorsa idrica, impari a contestare la concorrenza sleale di chi sfrutta il lavoro nero o di chi immette sui mercati prodotti insicuri, insalubri, non tracciabili, non certificati. L’innovazione industriale, dalla manifattura alle reti di connettività, può dotare il sistema produttivo di quella capacità propulsiva e competitiva che illusoriamente si è cercato di guadagnare con l’impoverimento del lavoro: ma occorre che ci sia una politica industriale, occorre che il pubblico riacquisti il suo ruolo e il suo primato nel campo programmatorio e progettuale, occorre che lo Stato non si contenti di presentarsi come una specie di bancomat pronto a finanziare le avventure e i capitomboli del privato, occorre che indichi vincoli e strategie: vincoli che riguardano la responsabilità sociale e ambientale delle imprese; che obblighino la storia industriale del Paese a fare i conti con la propria arretratezza, con le proprie furbizie levantine, con i propri scheletri nell’armadio; questi vincoli non sono ingerenza o vessazione, ma sono finestre aperte sul futuro, sono cioè qualità della produzione e del lavoro, e dunque sono propedeutici ad una strategia intelligente di competizione e di internazionalizzazione. Agricoltura e industria: usate queste due parole come lenti d’ingrandimento per leggere e giudicare le politiche degli ultimi governi: si vedrà l’improvvisazione, la confusione, la cessione di sovranità nei confronti dei grandi e spesso prepotenti attori del mondo dell’impresa, proprio perché la politica si è auto-rappresentata come non competente a trattare questi oggetti bollenti e perché aveva la coda di paglia della sua impresentabilità sul piano morale. Nessuna questione invece viene posta a proposito della dimensione morale di un capitalismo che, osservato dal lato della storia giudiziaria di tutte le più importanti famiglie imprenditoriali italiane, talvolta appare segnato da una vera e propria dimensione neo-criminale. Nell’edilizia, nella chimica, nella siderurgia, nel credito, nei rifiuti, nell’energia, ovunque l’illegalità, la rete corruttiva, spesso la collusione con le mafie, hanno ipotecato lo sviluppo di una economia sana: ma l’Italia è un luogo assai curioso, in cui si scatena l’ira di Dio contro i corrotti (in genere la Pubblica amministrazione e la politica) ma cala il velo dell’oblio sui corruttori (in genere gli attori economici). Torno alla questione da cui sono partito: l’innovazione. L’innovazione nel campo delle politiche culturali può significare la vera rivoluzione di cui abbiamo urgente e dolente bisogno: penso con viva emozione alla grande lezione del maestro Claudio Abbado, musicista, educatore, testimone del suo tempo. Abbado diceva così: “rifarei tutto: suonare nelle fabbriche, aprire la Scala agli studenti e agli operai, cose che ho fatto perché ritenevo giuste”. Poi aggiungeva, polemicamente: “Non è vero che in Germania e in Austria si fa di più per la cultura perché sono ricchi. E’ vero il contrario. Sono più ricchi perché si fa di più per la cultura”. E dunque tornare ad investire sull’educazione e sulla formazione delle giovani generazioni è ovviamente la premessa di quella svolta così urgente in un Paese che ha fatto cassa tagliando le risorse del teatro, della musica, del cinema, dei musei, delle biblioteche, degli archivi, e poi del diritto allo studio e dell’edilizia scolastica, e che ha introdotto modelli velleitari di gestione aziendalistica degli apparati formativi, che ha premiato come virtuosi gli atenei collocati nelle aree più ricche della penisola e che ha penalizzato come reprobi gli atenei collocati nei territori più esperti di disagio e povertà; che ha quasi sempre usato la leva della formazione professionale per costruire i luna-park del clientelismo e della dissipazione del denaro pubblico. In un Paese in cui nessuno si occupa di contrastare la dispersione scolastica e l’analfabetismo, non solo si smarrisce il senso di sé, il proprio racconto civile, non solo si depaupera il capitale sociale globale, ma si perde l’occasione di comprendere quanto sia remunerativo l’investimento in cultura, spinto fino al punto di progettare e costruire veri e propri distretti produttivi: l’industria della relazione, della connessione, della creazione, in tutte le arti e le attività umane, è sempre più il cuore pulsante di quella economia dei beni immateriali che acquisisce quote crescenti di pubblico e di mercato; anzi, accade anche questo, le economie si parlano, si incrociano, precipitano nei contesti urbani e nei circuiti di consumo, l’arte e l’artigianato e l’impresa sociale e l’impresa privata rimescolano talenti e competenze, le start-up giovanili immettono nel mercato spiriti inventivi che sono le abilità di soggetti connessi, di cittadini consapevoli, di individui sociali. L’innovazione nella pianificazione urbana può consentire il rilancio delle imprese dell’edilizia, la riqualificazione di periferie degradate anche attraverso gli strumenti della bio-edilizia e della bio-architettura, e dunque la dotazione di servizi e di modelli urbani capaci di ridurre lo spreco di materia e di energia, ma l’organizzazione di moduli di mobilità sostenibile a partire dalle piste ciclabili e dal rilancio del trasporto pubblico. Insomma più profitto privato ma anche più profitto sociale, in luoghi che sono stati pensati e edificati come occupazione selvaggia di suolo, cementificazione tanto abusiva quanto condonata, urbanistica di rapina, orribili crocevia degli interessi speculativi delle imprese edili e delle proprietà fondiarie. Pensare città di qualità, oggi si dice smart, cioè intelligenti e libere da barriere architettoniche o logistiche o culturali, come lo spazio di un abitare e vivere che fanno della bellezza e della socialità le loro coordinate indispensabili: ecco un programma di governo. Oggi le città sono sempre di più trincee di lotta contro la crisi, in cui sperimentare alternative praticabili e avanzate alla penuria di reddito, di alloggi, di lavoro, e dunque luoghi in cui avanza la sperimentazione del co-housing o del co-working.
Il nostro destino non può essere una vita di pena, ma una vita piena…
Torna il prefisso “co”, cioè insieme: la prospettiva è dunque “insieme” sul cammino dell’innovazione. Se non fosse così tragica la questione della disoccupazione e dell’inoccupazione, se l’innovazione non fosse ridotta al rango di marchingegno luciferino che automatizza processi produttivi ed espelle lavoro umano, potremmo noi esplorare con più libertà quegli orizzonti pratico-teorici in cui il lavoro e il sapere ricompongono le proprie scissioni e fratture: saper pensare, saper progettare, saper fare, sono abilità vieppiù intrecciate. In un mondo in cui cognizione tecnica e discernimento etico si abbracciano, significa andare oltre la divisione di cultura scientifica e cultura umanistica. Oltre quella storia di classe che tende a farsi natura, per la quale le elite si candidano alle mansioni intellettuali e i ceti subalterni alla fatica fisica dei mestieri manuali. Si può cambiare una cultura che occulta una struttura sociale feroce: il nostro destino non può essere una vita di pena, ma una vita piena. Voglio infine dire che l’innovazione non è uno specialismo né una delega, ma la bussola con cui dobbiamo orientarci nel mondo incognito in cui siamo atterrati. Dobbiamo dare strumenti cognitivi al nostro coraggio, cioè al bisogno di non farci governare dalla paura. L’Italia da troppo tempo è governata dalla paura. E’ un Paese disorientato, anche perché siamo rimasti al palo. Avari nel settore cruciale della ricerca, soffocata dai tagli e dalla sciatteria della classe dirigente che considerava non commestibile la cultura. La pubblica istruzione ferita da un definanziamento doppiamente penalizzante, perché si toglieva salario e perché si toglieva valore sociale al lavoro educativo. E’ così che il lavoro torna ad essere merce, e il lavoro si trascina il lavoratore in questo capitombolo dei valori, anche il lavoratore diventa merce, quella merce avrà un prezzo ma non avrà più un valore. Questo è accaduto. Una mutilazione. Questa è la radice sociale della paura. Quando poi il lavoro si è fatto libero e non subordinato, si è fatto piccola o media impresa che a sua volta ha distribuito lavoro, è accaduto che quel lavoro e quell’impresa sono stati lasciati soli in balia dei trafficanti di modernità, stressati da una fiscalità oppressiva e sperequata, anzi oppressiva perché sperequata, sono stati illusi di poter sopravvivere nella competizione globale usando la leva del costo del lavoro, e cioè riducendo progressivamente tutele e reddito della forza di lavoro. Ma il lavoro povero, il contratto precario, sono davvero la risposta sbagliata a quel deficit competitivo che è solo la conseguenza del pauroso deficit innovativo che l’Italia ha cumulato. E un lavoro ricco non può che nascere dalla cognizione di quanto sia acuto il dolore della terra, e di quanto sia necessario curarne la febbre ambientale, per preservarne la salute e tutelarne la bellezza. Allora ecco cosa intendiamo noi per innovazione, senza girare troppo attorno alla questione. Lo abbiamo imparato dalla coerenza della vita e dall’eleganza del pensiero di Alex Langer, la cui testimonianza, la cui intelligenza, il cui dolore, sono un tesoro ancora tutto da scoprire. Lo impariamo quando non abbiamo paura di imparare: è la conversione ecologica dell’economia, una profezia laica all’altezza delle contraddizione e dei dilemmi del tempo nostro. Non è la mitologia dell’Eden pre-industriale, non è una decorazione naif del modello dominante di crescita economica, non è una fuga spiritualistica. E’ una cultura della responsabilità che assume il paradigma della complessità a fondamento di decisioni consapevoli. Saper scegliere, dotandosi di pensieri lunghi e di un passo umano.
Ripensare il senso e le forme della produzione…
Occorre dunque ripensare il senso e le forme della produzione, il lavoro può così incontrare l’innovazione e liberare il proprio talento e liberarsi dal suo destino di alienazione. E si disvela il carattere maturo di una nuova questione democratica: che torna a illuminare il carattere di fondazione civile del nesso lavoro-libertà, che accetta la sfida della democrazia di genere e della politica che rompe la sua forma di club maschile, che esercita il principio di precauzione e giunge a pensare, finalmente, la democrazia non solo come procedura ma come comunità, la democrazia che presidia il diritto del presente ad avere futuro, e il diritto del futuro ad avere un passato, i diritti che custodiscono il dovere della cura, di se stessi, degli altri, dei beni comuni che abbiamo ereditato, di quella fraternità che mille volte mandiamo in frantumi, come specchi rotti che annunciano cattivi presagi. Abbiamo visto spostarsi progressivamente i luoghi della decisione, così mentre la società liquida si accontentava di una democrazia liquida e talvolta liquorosa, il turbo-capitalismo con le sue magie finanziarie portava il gioco d’azzardo sul terreno della politica. Il potere finanziario detta l’agenda del governo e, chiunque governi, deve fare i conti con l’intimazione padronale dei trafficanti di titoli azionari e di infinite altre sostanze stupefacenti. E i governi investiti dall’alto e detestati dal basso sono l’espressione di un processo di privatizzazione della politica, di sua riduzione al rango di notaio che certifica l’ineluttabilità dell’ingiustizia sociale in quanto architrave dello sviluppo capitalistico. Il cinismo che la rivoluzione liberista ha depositato nel vocabolario della lingua pubblica italiana è come un’onda di ammoniaca che assale le narici. Si è tornati a confezionare la ricchezza come virtù e innocenza, a denunciare nella povertà il vizio e la colpa, il leghismo è diventata una mentalità dell’establishment e il Mezzogiorno d’Italia è diventato il grande rimosso e forse il grande rimorso degli ultimi quattro lustri di storia patria, il razzismo è stato difeso in quanto libertà di pensiero, il femminicidio è stato oggetto di indagine penale piuttosto che di analisi antropologica e culturale, le libertà degli individui hanno continuato a permanere in custodia coatta sotto il controllo dei guardiani della tradizione o dei monopolisti delle verità rivelate. Ecco, ti scoppia in testa l’immagine di un blocco, di una paralisi, di un muro, di un freno, di un sistema di codici semantici lungamente sedimentati nelle prassi della vita pubblica, che inibiscono il cambiamento. Si sospende la politica, si mette in scena la tecnica, si abolisce il conflitto, si uccide la dialettica, si circoscrive la competenza della democrazia. Il Paese reale registra lo smottamento pauroso del ceto medio verso un impoverimento talvolta feroce e privo di ammortizzatori. Il Paese legale sempre più autoreferenziale, sempre più spaventato dalla propria impotenza dinanzi alla stra-potenza dei forconi e allo stra-potere di quelli che un vecchio sgarbato lessico definiva “padroni”. Come in un copione capovolto, la politica si rinchiude nel Palazzo celebrando una sorta di “Aventino all’incontrario”. Non siamo finiti forse in questo buco nero? Non è questo il deficit di intelligenza e di decoro che rischia di spingerci dentro una macchina del tempo e farci atterrare sulle piste del ribellismo reazionario del primo Novecento? Se siamo di fronte a blocchi populisti che giocano col fuoco della violenza verbale, della denigrazione e della volgarità, della semplificazione brutale di una complessità che viene rifiutata come se fosse la costruzione artificiale di un demonio, se siamo – nell’oscillare rumoroso dalla rete ai talk show – dentro un passaggio pericoloso e sporco, sporco di razzismo di maschilismo di omofobia di classismo di nazionalismo di localismo di corporativismo – vuol dire che alla sua sconfitta epocale la sinistra ha reagito cercando una vittoria in forma di scorciatoia elettorale e non in forma di ricostruzione della sua missione. La fine della diversità berlingueriana ha schiuso le porte all’irresistibile ascesa della normalità berlusconiana. Il veleno è entrato anche nel campo nostro. E spesso le idee e le pratiche alternative si sono alterate e corrotte, trasfigurando l’ansia genuina di cambiamento in fanatismo, in invocazione giustizialista, o in quel fondamentalismo che è tanto ricco di urla quanto povero di pensieri. C’è forse purezza di sentimenti in chi invoca, nel nome legittimo della salvezza degli animali vivisezionati, la morte rapida e violenta di chi, nel nome della ricerca per la cura delle malattie rare, sta ponendo un problema? I problemi scompaiono forse se scompare chi li pone? Ecco, per dire tutta la latitudine della sconfitta della sinistra, dalle pratiche compromissorie e trasformistiche ad un certo radicalismo ottuso, dalla resa culturale al mito delle compatibilità di sistema fino alla ciclica sottovalutazione di quanto sia centrale il tema della non-violenza come nuovo paradigma dell’agire nella sfera pubblica come in quella privata.
Non violenza e diritti …
Parlo della nonviolenza intesa come critica pratica (se posso usare un lessico antico) della violenza, della sua struttura materiale e della sua incredibile capacità riproduttiva, e cioè della sua potenza distruttiva del sentimento di umanità. Proprio per questo, per reagire al fascino discreto della violenza, dobbiamo riflettere su quanto i mezzi qualifichino e determinino i fini, su quante reti giustificazioniste siano state tessute per eternizzare uno stile predatorio nelle relazioni sociali e interpersonali. Nelle piazze lo stomaco dei populisti trova indigesta la mitezza. Nel Palazzo il potere talvolta appare quasi come una sorta di architettura e teologia della violenza. Per questo credo che sia rivoluzionario tornare a riflettere sugli stimoli di chi ha parlato di diritto mite, magari provando a ripensare quel sistema giudiziario il cui affanno e il cui avvitamento sono un altro ingrediente cruciale della crisi italiana. E soprattutto presidiando i luoghi in cui il diritto si piega e si storce, a partire dal circuito penitenziario con le sue pene e la sua pena, con la sua sistematica violazione di codici elementari di umanità, con la sua dimensione palpabile ed emblematica di discarica sociale, con il suo bisogno di disciplinare i comportamenti individuali e di sanzionare gli stili di vita. Quanta violenza nelle leggi proibizioniste, quelle che sanzionano penalmente anche il consumo personale di droghe leggere, quelle che regolamentano moralisticamente e spesso impediscono la fecondazione assistita, quelle che obbligano all’accanimento terapeutico anche contro il diritto alla dignità della morte, quelle che lasciano in dote ai dogmatici e ai clericali il monopolio della sfera privata e dei costumi sessuali. “Signore salvami dall’imperizia di chi salva i principi e uccide le persone” così recita una preghiera di don Tonino Bello. La nonviolenza naturalmente non piace ai violenti, a chi pratica la violenza, a chi la teorizza, a chi la trova tollerabile o addirittura auspicabile a seconda dei contesti. La nonviolenza non piace neppure a chi ne rimuove il bisogno conoscitivo: la sinistra nelle sue contorsioni governiste, sempre auto-ricattata dalle varie emergenze, non si ferma mai a riflettere su quanto l’industria militare pesi nella sfera pubblica, su quanto il realismo dei centri di contenimento dei migranti sia violenza ordinaria e, come dire, di rango ordinamentale, su quanto le grandi opere mistifichino e droghino il bisogno di modernità del Paese, su quanto il ritardo sempre più inaccettabile delle leggi italiane in materie complesse quali quelle che riguardano i diritti di libertà degli individui. Individui, persone: un tempo molti di noi avrebbero trovate inconciliabili queste due parole, oggi molti di noi le sentono connesse. Ma sulla scena pubblica, nel sapere delle norme, quelle persone sono variabili dipendenti del mercato e quegli individui sono sospesi come in un limbo, in una specie di purgatorio di Stato. Alle donne è toccato il compito di scuotere dal suo comodo torpore il vocabolario della conservazione maschile, l’individuo/individua è la persona col suo genere e con la sua singolarità irriducibile, non c’è un magma semantico in cui inghiottire la libertà delle donne. Il genere femminile si è nominato, con dolore e ricchezza culturale, ha scavato nella propria genealogia, ha riletto il mondo e la storia con uno sguardo nuovo, poi ha rotto la storia del mondo. Ma anche questo, che pure a sinistra si può dire, viene poi sbrigativamente assunto come spunto per la cooptazione delle donne negli spazi di potere oppure come sanzione penale per le molestie e la violenza contro le donne. Pensare le donne come se fossero un sindacato, solo questo sappiamo fare? Negoziare una moderata cessione di sovranità? E spargere il seme della solidarietà, affinché i maschi non molesti possano rapidamente voltar pagina? E se invece dovessimo tornare sul luogo del delitto, a scrutare le tracce dell’assassino seriale di donne, se ragionassimo persino sui significati reconditi di ciascuna variante di quel repertorio di scempio del corpo femminile, di soppressione dell’autonomia femminile, correremmo forse il rischio di sentirci in qualche oscura maniera in uno scomodo identikit? Forse c’è una violenza di genere depositata nel nostro inconscio, nella nostra memoria remota, forse dovremmo mettere a fuoco la natura del reato, e vedere lì dentro, in quel buio, in quella onnipotenza cieca di un maschio proprietario e assassino, un riverbero, un epifenomeno, un’immagine della nostra cultura generale, che proprio sul nodo vità-proprietà e sesso-denaro-potere costruisce stili di riproduzione sociale. Noi ci accontentiamo di uno stereotipo e di una pena dura e certa: lì ci si ferma, non si va oltre. Oltre non c’è il vuoto ma molto altro, in termini di teoria e di prassi, c’è la necessaria decostruzione critica dei ruoli, della loro gerarchia, della loro proiezione al di fuori del recinto privato. Oltre c’è la progettazione di spazi e tempi accoglienti per uomini e donne, la consapevolezza che la differenza non è minorità né minaccia, ma differenza, è cioè ricchezza. Ma che alternativa possiamo desiderare, addirittura di modello sociale oltre che di governo politico, se non siamo in grado di dare al nostro riformismo l’audacia di un pensiero radicale? Lo dico al Pd ma anche a noi, ai nostri compagni e compagne di viaggio. Di cosa abbiamo paura? Di apparire utopisti? Ma siamo viceversa apparsi cinici: questo ci ha dannati. Non dovremmo più avere paura di cercare se non le risposte giuste, perlomeno le domande giuste. Tanto per chiudere il cerchio ne pongo una di domande, che allude al nodo pace guerra come ricerca inesauribile di nuovi rapporti tra i popoli, tra gli stati, tra gli individui. Parlare di disarmo significa forse fuoriuscire dalla politica? Che parola pregnante e multidimensionale: disarmo! E’politica internazionale, politica della sicurezza, è conversione dei modelli produttivi, è rispetto della natura, è educazione alla convivenza e alla convivialità, è critica degli armamenti e dell’armarsi, a partire dagli apparati industriali militari per finire agli apparati genitali. Le guerre stellari, la guerra infinita, le guerre umanitarie e democratiche, le fosse comuni, le stragi chimiche, le Twin Towers, la strage dei bambini di Beslan, i kamikaze, la carneficina degli adolescenti norvegesi sull’isola di Utoya, le bombe intelligenti e le stupidissime mine, un bimbo rom ucciso dal rogo occasionale in una roulotte o il piccolo Nicola ridotto in cenere a Cassano ionico, lo sgozzamento rituale del nemico infedele nell’epoca della riproducibilità tecnica dell’orrore: ecco un indice incompleto della cronaca degli ultimi lustri di vita planetaria. Non è forse una cronaca che interroga il senso della nostra comune storia? E Fukushima non ci dice che anche lo sviluppismo senza “principio di precauzione” è come un plotone di esecuzione che mira sul corpo nudo e inerme del creato? Disarmare il nostro cattivo realismo e i suoi strumenti contundenti non è forse una urgenza della politica? Disarmare il nostro antropocentrismo non è forse una bella sfida, dinanzi alle ragioni di chi difende il vivente non umano, di chi ci propone un’agenda di governo che metta al centro la tutela della biodiversità, la cura della casa terrestre e del giardino planetario, un rispetto e un discernimento quasi francescano nei confronti della vita degli animali? Anche il disarmo allora è il cuore di una grande innovazione, di una grande riforma di cui il villaggio globale, assediato dalle piccole patrie, ha disperato bisogno.
Il diritto dell’Italia di guardare negli ochhi il caimano…
Voglio dire che una nuova sinistra, il socialismo del ventunesimo secolo, la sfida ecologista della conversione, se non vogliono essere formule vuote o esorcismi, debbono essere stimoli ad un discorso di verità. La sconfitta perdura, è come uno smottamento permanente, ogni giorno semina i suoi veleni. Il fondamento di questa sconfitta lunga è culturale, lo svolgimento di questa pesante sconfitta è chiuso nelle vicende politiche che, tra la rovina della Prima Repubblica e l’attuale rovina della Seconda Repubblica, hanno costruito la stagione della destra al potere. Il berlusconismo è stato una variante effervescente della rivoluzione liberista, e il Cavaliere ha avuto la scaltrezza di presentare la sua disinvolta ascesa nell’universo dei poteri concentrati e intrecciati come una epopea e una ideologia pubblicitaria, come una sua Weltanschauung aziendal-sessual-televisiva. L’Italia forse aveva il diritto di guardare dritto negli occhi il caimano e il suo sistema di potere, anche per poterlo giudicare, giudicarlo politicamente, e lasciando ai giudici il compito di scrivere le sentenze che concernono i reati. L’Italia è stata scippata del diritto di voltar pagina, si è dato all’uomo di Arcore il tempo e il modo di continuare a condizionare e anche truccare la partita: presentandosi come il leader di una immaginaria resistenza impegnata a combattere il comunismo – una sorta di luogo abitato esclusivamente da PM e da giornalisti – cancellava progressivamente dalla memoria e dall’immaginario collettivo le responsabilità sue e della sua coalizione nella drammatica evoluzione della crisi economica. Lui esce da Palazzo Chigi, esce da uno schermo in cui il suo è il corpo del sovrano, dunque il responsabile di fatti rilevanti e gravi magari legati strettamente a nomi come Tremonti o Gelmini o Sacconi o Calderoli, lui torna a incarnare il sogno di un anti Stato che affida le chiavi della vita sociale alla spontaneità del mercato, lui non appare più l’interprete feroce di una politica anti-sociale ma torna a poco a poco a rimontare la barricata antifiscale, lui si inabissa e riemerge come una creatura romanzesca, la vittima ribelle del sistema (giudiziario, fiscale, informativo, politico). Può recitare questa parte perché gli viene consentito. Il Pd, in una inguaribile coazione a ripetere, invece che promettere giustizia sociale, promette rigore contabile. Monti, una variante liberista del moderatismo cattolico, diventa una bandiera simil-progressista e Berlusconi ne sostiene il governo in Parlamento e lo contrasta demagogicamente nella società e sui media. Non è una commedia degli equivoci, la ma nostra storia più recente. Quando si torna finalmente alle urne, evento piuttosto sgradevole al palato dei mercati finanziari, il PD invece di promettere una speranza e una alternativa parla di Mario Monti, non capisce bene gli effetti devastanti della riforma Fornero, rende invisibile la proposta bella e forte di “Italia bene comune”. Sono molte le potenze che si erano mobilitate dapprima contro la prospettiva di primarie per ciò che significava nel 2010, poi contro la “foto di Vasto” e l’eventualità di elezioni anticipate nel 2011, poi contro un’alleanza riformista che proponesse un’uscita a sinistra dalla fine del berlusconismo: Monti è stato la metafora di una ipoteca liberista sull’agenda di governo del centro-sinistra. Un pezzo del mondo di centro-sinistra ha detto basta, questa volta non bevo, è rimasto a casa, oppure ha votato Grillo. La sinistra radicale ha provato una sorta di camuffamento civico, giocandolo tutto contro di noi. I 5stelle hanno capito il dolore e catalizzato il rancore, vendendo l’illusione di una rivoluzione fatta solo di umori e di viscere, e prefigurando così, con il loro programmatico rifiuto di contaminarsi nel dialogo con qualsiasi altro attore politico, una sorta di società dell’intolleranza: e così l’energia vitale della nuova generazione di parlamentari grillini si è andata spegnendo rapidamente nel grigiore di un copione che, nella sua monotonia, appartiene pur sempre al teatro. Il monologo non è un bella traccia di società aperta. La mitica rete serve a pescare la frustrazione molecolare di universi vulnerati per trasformarli in democrazia dell’invettiva e della bestemmia. Come sappiamo, gli uomini della provvidenza, comici dilettanti o comici professionisti, non sono la soluzione del problema, sono l’esplosione del problema. E dunque, nel febbraio del 2013, invece che la tanto attesa e annunciata vittoria del centro sinistra, ha vinto il caos, cioè il contesto più idoneo ad accogliere la modernissima alleanza tra poteri forti e populismo. Anche noi, pur entrando in Parlamento, abbiamo perso la scommessa. La partita è ancora lì, più complessa e difficile di ieri. Perché dopo le elezioni per il nuovo Parlamento il sistema politico poteva imboccare strade diverse: ha scelto la peggiore, la più politicamente spregiudicata, la più socialmente iniqua, e cioè la strada dell’intesa con l’avversario, con quell’avversario il cui nome già evocava il corrompimento della Repubblica, l’accordo nel nome dell’austerità, non quella di Berlinguer – che era una prospettiva di lotta contro il consumismo e la civiltà dello spreco – ma quella comandata dai tecnocrati di Bruxelles. Le larghe intese da Monti a Letta, passando per il parricidio simbolico di Romano Prodi nelle urne per il seggio quirinalizio, sono state l’esito di una selvaggia lotta politica interna al gruppo dirigente democratico. Una deriva, non un esito obbligato. Un compromesso al ribasso con chi ha fatto dell’assalto alla Costituzione repubblicana il cuore della propria strategia, di chi cioè non tollera il modello sociale che i nostri costituenti immaginarono attingendo ai contributi della cultura radical-socialista e azionista, di quella liberale e repubblicana, di quella comunista e di quella cristiano democratica, fino a disegnare con la carta, con i suoi principi e valori fondanti, con i suoi diritti e i suoi doveri, l’orizzonte di una società libera, cioè libera dalla miseria e da ogni genere di oppressione, capace di promuovere l’eguaglianza, garante delle libertà individuali e custode della solidarietà sociale. Noi abbiamo oggi il compito di togliere quella carta dalle cornici d’oro e di liberare quelle norme da un certo profumo di naftalina: la Costituzione non è un mausoleo, ma è la bussola. Non si tratta di lucidarla o di imbalsamarla, si tratta di usarla. Lì c’era l’antidoto al berlusconismo. Lì ci sono la sapienza antifascista che immunizza dalle tentazioni autoritarie, la profezia sociale della redistribuzione e dell’equità, i diritti inviolabili di cittadinanza, la civiltà del Welfare, le libertà politiche e sindacali, le libertà economiche sottoposte al primato della responsabilità sociale, la libertà d’informazione, il ripudio della guerra. Per questo eravamo davvero a nostro agio nella piazza del 12 ottobre, insieme a Stefano Rodotà, a difendere non un bene monumentale, ma quella “via maestra” che è il fondamento del nostro vivere civile. Aver presentato la nostra giovanissima Carta Costituzionale come un residuo del Novecento, averne inseguito ipotesi di manomissione anche della prima parte, questo era logico e conseguente a destra. Ma a sinistra? Non era un paradossale cupio dissolvi? La destra ha fatto bene il proprio mestiere: la privatizzazione della politica e dello Stato, la mercantilizzazione della società e la mercificazione della vita, tutto questo era in evidente contraddizione con l’impianto costituzionale del nostro Paese. E’ la sinistra che ha giocato a nascondino quando doveva definire il campo da gioco e la posta in palio, è la sinistra che ha subito l’egemonia della destra, e infatti la mezza vittoria alle ultime elezioni generali è in realtà una sconfitta piena che viene da lontano ed è sembrata andare molto più lontano di quanto noi stessi non avessimo previsto.
La povertà è tornata come l’onda devastatrice di uno tsunami…
Insomma in quell’autunno del 2010 quando a Firenze fondammo Sel, non avremmo mai pensato di precipitare nel pantano di governi, di maggioranze, di sperimenti politici e istituzionali, che hanno danzato attorno al totem della crisi economica e poi della crisi del sistema politico senza mai riuscire a percepire la novità epocale del terremoto sociale che stava scuotendo il Paese. Il ritorno della povertà, come deriva materiale o come incertezza di futuro, è un fatto che rovescia la storia di una nazione che è andata emancipandosi e trasformandosi. Di generazione in generazione, la povertà si è andata progressivamente allontanando, come un oggetto visto col cannocchiale rovesciato, sempre più distante, sempre più remoto, quasi il catalogo di un antiquario. Invece la povertà è tornata come l’onda devastatrice di uno tsunami, non ha raso al suolo soltanto gli accampamenti dell’emarginazione e le periferie dell’abbandono e della solitudine, ma ha spezzato le ossa al ceto medio, ha pugnalato la pancia dell’Italia produttiva, ha reso alleati nello schianto il lavoro e la piccola impresa, ha privato di assistenza reale una porzione crescente di popolazione anziana, ha smesso di curare la carie sui denti dei bimbi delle famiglie incapienti. Insomma ha combattutto una guerra che ha lasciato sul campo morti e feriti, ma che soprattutto ha generato una nuova “età dell’incertezza”, un tempo senza speranza e senza politica, oppure senza relazione possibile tra politica e speranza. Siamo finiti qui, a fare i conti con quest’algebra che è la fotografia di un declino: quasi dieci milioni di poveri relativi, quasi cinque milioni di poveri assoluti. Una povertà così non è solo patologia sociale, è crisi e morte della democrazia. Se non abbiamo imparato questo dalle lezioni novecentesche non abbiamo imparato quasi nulla. La generalizzazione della condizione di povertà non prelude alla rivoluzione ma prepara il fascismo. Se proiettiamo il nostro sguardo sull’Europa si capisce che l’Italia non è una anomalia. Nel vecchio continente le persone a rischio povertà sono 125 milioni. Bisogna aggiungere altro, cercare altri argomenti o più dure suggestioni, per capire che così l’Europa semplicemente non c’è più?
L’idea di Europa come comunità solidale…
Alba dorata non è un paradosso greco ma una parabola tutta europea. L’austerity e il populismo in tutte le sue varianti sono fenomeni complementari. Le formazioni neo-naziste e neo-fasciste sono rapidamente fuoriuscite dagli scantinati della nostalgia o dell’indottrinamento per così dire elitario, hanno guadagnato consensi e posizionamenti, sono un pezzo di Europa politica, condizionano il clima e spostano a destra l’intero asse della politica continentale. Marine Le Pen catalizza per intero la delusione e il malcontento generato dal governo Hollande. I blocchi populisti di destra, al netto delle differenze anche rilevanti tra nazione e nazione, minacciano il destino dell’Unione. Ma prima delle squadre di teste rasate con le croci celtiche tatuate sugli avambracci, sono le classi dirigenti di un’Europa tutta ripiegata sulle proprie paure che hanno messo in un angolo la grande sfida, il sogno, dell’unità politica del vecchio continente. Che strano il nostro continente: mentre Obama volgeva la sua attenzione al modello europeo di universalismo dei diritti sociali, noi spedivamo in esilio il vecchio Keynes e mandavamo a Bruxelles i nipotini di Von Hayek. La Grecia è stata la cavia prediletta di questa scienza pazza che ha mescolato dispotismo finanziario e macelleria sociale. Il Pasok, corresponsabile tanto della bolla speculativa quanto della corruzione di sistema, ha offerto il suo Paese al sadismo della troika. Ha avuto un ruolo in ciascuno dei disastri che hanno sprofondato la società ellenica in una specie di allucinato dopoguerra ed oggi sembra candidato all’estinzione. Ma fa impressione il fatto che nel dibattito europeo, incurante del ridicolo, c’è chi ha teorizzato come fatto plausibile l’uscita della Grecia dall’Unione. Non so come si possa pensare questo continente senza quella nazione, quella storia, che è stata la sua stessa culla, un fondamento della nostra stessa identità di europei. Forse era l’ambizione cattiva e penosa di ridisegnare le ambizioni europeiste dentro la misura corta e concentrata di un’Europa liberata dalle sue appendici meridionali, un’Europa carolingia e senza Mediterraneo, laddove tutti i Sud del nostro continente diventavano al massimo approdi esotici per voli low-cost, ma non pesi politici e culturali sulla bilancia dell’integrazione. Espungere la dimensione euro-mediterranea, recidere il cordone ombelicale con il mare nostrum e le sue culture fondative, concentrare una tensione identitaria verso il Nord delle piazze d’affari e interrompere il viaggio verso il Sud delle agorà popolari, questo ha illividito l’Europa. Si è interrotto il processo di allargamento, si è sfibrato il processo di unificazione, si è così aperto il varco al passaggio di quella “cosa immonda” della cui immanenza ci ammoniva Brecht. Le larghe intese e le grandi coalizioni sono un’ipoteca sul futuro dell’Europa, perché nascono per proteggere il presente sia dalle minacce del passato che dalle domande di futuro, perché rendono ciechi dinanzi alla dissipazione della più grande lezione che la giovane democrazia europea seppe apprendere sia dalla bestialità di due guerre mondiali che erano forse un’unica ininterrotta guerra civile e sia dalla catastrofe della dittatura che portò fascismo e nazismo a installare e gestire una moderna ed efficiente industria dello sterminio di massa. Appunto l’idea di Europa come comunità solidale, dotata di istituzioni politiche ed economiche, una democrazia continentale nella cui comunità plurale potessero sciogliersi i nodi intricati dei conflitti tra Stati nazionali. Per mettere al bando la guerra e il fascismo non serve solo una limpida determinazione morale, serve una costruzione politica ardita: c’era nelle carte di Ventotene di Altiero Spinelli un’idea fondativa, il federalismo europeo come trascendimento dell’egoismo nazionale, come evoluzione storica e ricchezza democratica. Ce lo ricorda, con finezza e coraggio, sua figlia Barbara, che vede come avvolgersi la pellicola di questa storia, regredita fino al punto da attribuire alle nostre inquietudini una connotazione storico-politica che rende bene l’idea del punto in cui siamo: è proprio la sindrome di Weimar, il fantasma di una crisi politica che ben presto si trasformò nella più grande tragedia della storia umana, il nesso tra debolezza della politica e paura sociale, e questo che denuncia quanto irresponsabile sia stato, da parte della cabina di regia continentale, ordinare tagli e salassi, licenziamenti di massa e alleggerimento dei doveri sociali di ogni Stato. L’egemonia liberista aveva il suo manifesto nel fastidio tachteriano per la dimensione medesima della socialità, persino per la nozione di società, sostituita e compensata dalle promesse dell’individualismo proprietario. Le forze della sinistra governista e moderata hanno coltivato l’illusione di potere imbrigliare gli animali spiriti del turbocapitalismo finanziario dentro una quadro di equilibri e di compromessi. Un’illusione pagata a caro prezzo. La sperequazione tra chi ha e chi non ha, tra chi sa e chi non sa, è cresciuta. Non ci sono solo molti più poveri, un europeo ogni quattro ha paura della povertà. Ci sono anche i ricchi di sempre che ora sono molto più ricchi. La povertà si espande orizzontalmente, la ricchezza cresce verticalmente, entrambe crescono con progressione esponenziale. Vuol dire che se la crisi per gran parte della società è un calvario, per una parte ben protetta la crisi è una manna dal cielo. L’Europa dunque è a rischio, la civiltà europea è in discussione, è lo scalpo che J.P.Morgan e i suoi derivati vorrebbe esibire all’establishment finanziario mondiale. Contro questa prospettiva, contro la continuità autistica e distruttiva delle politiche di austerity, cresce una mobilitazione di energie intellettuali e sociali che resistono a ogni latitudine europea. Sono soggettività molteplici e diverse, talvolta divergenti, che cominciano a incastrare i tasselli di un forte rilancio dell’idea di Europa, cioè di un europeismo democratico e progressista, capace di indicare piuttosto che una prospettiva di resistenza e di attesa di tempi migliori, una vera offensiva culturale sulle tracce degli Stati Uniti d’Europa. Insomma, una ricerca dell’Europa perduta. Si tratta di un cammino che ha bisogno di alleanze, di speranze, di convergenze, di generosità. Penso al ruolo che può svolgere, come punto di riferimento di una svolta della socialdemocrazia europea, Martin Schultz: un protagonista autorevole della vita pubblica continentale che rilancia da sinistra il progetto di Unione, e lo fa indicando con chiarezza la discontinuità necessaria con la fin troppo lunga stagione liberista e con i totem e tabù di quella tecnocrazia che ha inventato fiscal compact e dimagrimento coatto della spesa pubblica. Ma penso anche al ruolo di Alexis Tzipras, che appare come la suggestiva immagine del Davide ellenico che sfida il Golia teutonico di una austerity che in Grecia si è esercitata con un sadismo sociale che ha sfiancato un intero popolo. Dobbiamo dialogare con l’uno e con l’altro, perché in quel dialogo c’è uno spazio politico e una prospettiva di futuro. E’ Tzipras che si erge come una barriera invalicabile contro Alba dorata, è la radicalità di una critica fatta non contro ma in nome dell’Europa. E’ Schultz che può accompagnare il socialismo europeo, che tanti conti salati dovrà saldare alle prossime elezioni continentali, a voltar pagina, non tanto in ragione dei propri interessi elettorali, ma soprattutto perché quel partito e quella storia sono la principale energia e lo strumento indispensabile per rifondare l’Europa. Non propongo una mediazione, un attorcimento, uno zigzag tattico, un gioco di equidistanza. Propongo una politica. Noi dovremo dialogare con i verdi europei, con le sinistre di alternativa, con i movimenti sociali, ma io penso che dobbiamo contribuire a incrociare le storie, le sensibilità di tante soggettività che possono convergere sull’idea guida di una Europa dei diritti e delle libertà, cioè di un continente che sappia essere all’altezza di quelle sue eredità (la rivoluzione francese, la liberazione antifascista, il moderno costituzionalismo, il movimento operaio) che sono non un archivio del passato ma un pro-memoria del futuro. Siamo impegnati a ridisegnare le mappe della politica europea, cercando un luogo influente e centrale per l’efficacia dell’agire quotidiano sulla scacchiera delle culture politiche e delle agende di governo. Quel luogo, che io non considero un approdo ideologico ma il campo largo in cui giocare la nostra partita, io credo che sia il Partito del socialismo europeo. Ma non vogliamo andare a chiuderci là dentro, vogliamo andare ad aprirci. Sapendo che i processi della politica sono tutt’altro che definiti. Se Schultz verrà frenato dalla realpolitik del compromesso emergenziale col polo conservatore, se Tzipras verrà frenato dall’assedio minoritario delle formazioni radicali, allora sarà tutto maledettamente più difficile. E se noi ci rassegneremo a ciascuno di questi esiti come se fosse fatale, allora sarà davvero acrobatico dotarci di una missione e svolgere un compito generale. Non siamo nati per essere concentrati sul nostro ombelico. Abbiamo coscienza piena di essere una piccola comunità, ma questo non deve impedirci di coltivare grandi ambizioni. Se Schultz e Tzipras fossero i simboli di una contesa piuttosto che di una possibile convergenza, questo sarebbe un vero peccato. Io sento il fascino di una prospettiva matura di confronto e di rimescolamento delle biografie e delle cassette degli attrezzi. Il leader della Spd, dallo scranno più alto del Parlamento europeo, prova a indicare il punto di rottura con ciò che simbolicamente e materialmente è stata l’egemonia della destra nelle istituzioni continentali. Il suo discorso pubblico contiene per intero la consapevolezza di cosa sia una sinistra infiltrata dai brokers del liberismo, e noi sappiamo che tante sono le ambiguità politico-culturali che ancora gravano sulle formazioni socialiste e laburiste nei diversi contesti nazionali. Tanti e complessi sono i nodi da sciogliere per rigenerare la sinistra e salvare l’Europa. Tuttavia Schultz è una speranza, l’austerity viene contestata persino dalle sentinelle del Fondo monetario, le cose possono cambiare anche molto rapidamente. Noi lavoriamo appunto perché cambino. Ma contemporaneamente noi ben conosciamo il leader di Syriza, era con noi a Genova nel luglio del 2001, ha compiuto un viaggio straordinario dalle trincee delle ribellioni studentesche fino a diventare il protagonista-chiave della politica greca, un probabile futuro premier non di un Paese in fuga verso i lidi del nazionalismo populista ma di una Grecia che vuole vivere l’Europa non più come una minaccia e come un incubo, bensì come la sua dimensione naturale e come la sua occasione di crescita. Ci sarebbe piaciuto che l’appello pro-Tzipras firmato da Barbara Spinelli e da tanti nostri amici e maestri non fosse prigioniero di una gabbia: quella del Gue, quella di una sinistra talvolta arroccata in se stessa, nelle proprie ortodossie e fissità identitarie. Perché ridurre la portata politica di una proposta potenzialmente così dirompente? Questa riduzione porta fatalmente a conseguenze politiche azzardate: come l’affermazione, che rende fragile l’impianto dell’appello, che all’indomani delle elezioni europee sarà inevitabile l’alleanza tra popolari e socialisti europei. La grande coalizione in chiave continentale. Se si pensa questo, allora Schultz diventa l’avversario. Se invece Schultz diventa l’interlocutore, davvero cambia il quadro. Come vedete ho descritto, certo dal nostro punto di vista, una scena tutt’altro che immobile e definita. Piuttosto che contorcerci in una sorta di dilemma referendario, vi propongo di continuare un dialogo e una ricerca, con tutti. Anche alla luce di due convincimenti profondi: Sel non può essere indifferente al tema dell’allargamento e dell’apertura, magari della partecipazione ad un’impresa politico-elettorale che incarni con radicalità lo spirito di innovazione di cui la sinistra ha bisogno; ma Sel non deve neppure aver paura di andare col suo simbolo alla sfida delle europee. Anche qui, non si tratta di costruire in provetta una soluzione, si tratta di essere protagonisti di processi reali, ben sapendo che fusioni a freddo, improvvisazioni politicistiche, velleitarie fughe in avanti, oppure borie di partito o istinti di auto-conservazione, sono tutte cose che ci portano dritti dritti in un vicolo cieco. E non dimentichiamo neppure che i leader europei sono, come direbbe l’adagio, il dito che indica la luna. La luna è l’Europa, il suo affanno, la sua prospettiva, il suo deficit democratico, la fiacchezza delle sue istituzioni. Ma anche, contemporaneamente, il suo essere la nostra chance, la meta del nostro cammino, il punto cruciale di un nuovo e più avanzato equilibrio nelle relazioni sociali e negli assetti della geopolitica planetaria.
Togliamoci il lutto
Cari compagni e care compagne, vorrei dirvi che è tempo di toglierci il lutto, di elaborarlo magari, ma poi di uscire fuori dal cerchio paralizzante di un dolore politico che ci ha accompagnati dall’indomani delle elezioni politiche, giorno dopo giorno, fino a questo Congresso. Certo siamo stati tutti spiazzati dalla leggerezza o dalla pesantezza con cui è stata archiviata la sfida di “Italia bene comune”. Era già quel nome, scelto dalla coalizione con il Pd e il Psi, a rappresentare una minaccia. Perché in quel nome e in quel patto si sentiva l’eco dell’Italia maggioritaria dei referendum, della più inedita e dirompente reazione popolare all’ideologia berlusconiana del “tutto privato” (acqua, giustizia, nucleare: tutti oggetti appetibili per i trafficanti di mercificazione, privatizzazione, militarizzazione della società italiana). Era l’alternativa sociale al dominio della tecnica, che – ripeto – è una tecnica del dominio, ed era l’argine all’urto dei populismi. Ma anche a sinistra c’è chi ha lavorato per seppellire quella vittoria, o semplicemente rimuovendone il significato e la potenza (27 milioni di italiani che giudicano negativamente i pezzi pregiati di un modello sociale), oppure piegando quel voto all’uso strumentale nelle piccole botteghe dell’integralismo ideologico. Altro che primarie, il PD che conosciamo, sia nella sua anima consociativa che in quella rottamatrice, non fonda le proprie prospettive su quella vittoria, ma sulla necessità di ignorarne il senso. Bersani avrebbe potuto rappresentare una svolta, noi ci abbiamo creduto, ma la svolta non c’è stata: e a Pierluigi oggi noi rivolgiamo il nostro saluto affettuoso e il nostro augurio di tornare presto in campo. Ma per me, lo confesso, è difficile orientarmi oggi dinanzi alla geografia interna al Partito Democratico: perché senza un confronto sul piano inclinato della storia recente, diventa faticoso comprendere, al netto degli album di famiglia delle appartenenze politiche pregresse, le ragioni e gli oggetti della contesa interna. Capisco soltanto che non ho alcuna voglia di iscrivimi a nessuna delle sue correnti interne, perché il PD non è il mio e il nostro destino. I democratici certo per noi rappresentano la scelta consapevole dell’alleato, dell’alleanza possibile in condizioni così evidenti di disparità dimensionale, ma questa relazione, tutta da costruire e verificare, non è né una condanna né una liberazione. Sono il nostro interlocutore, sono il partito con cui governiamo parti rilevanti del Paese, non sono la nostra resa. Difficile esprimere in forma di twitter questo concetto: noi non intendiamo scioglierci fino a quando non nascerà, se nascerà, il cantiere di un nuovo soggetto della sinistra del futuro. Tuttavia conosciamo tutte le miserie e le contraddizioni che stringono la forma-partito in una morsa e che sono il riverbero fatale di quella polverizzazione dei corpi sociali e di quella mutazione antropologica cui abbiamo già accennato. Come dire che la sconfitta è anche dentro di noi, ci accompagna come un’ombra, vive nel degrado delle relazione interpersonali e nella teatralizzazione di ogni dialettica, vive persino nella retorica del rifiuto della militarizzazione proclamato come un grido di battaglia. Vive nella semplificazione manichea che tracima dai social network e corrompe la discussione, vive nell’inclinare la propria passione polemica in diffamazione malevola, vive nello stile di un dissenso che piuttosto che reclutare consenso si tramuta in kamikaze, vive nelle maggioranze che si blindano nelle proprie certezze, vive nell’inquieta e spesso disperata ricerca di una democrazia che sia uno spazio più largo per tanti e tante e non un corridoio più manipolabile per i professionisti del basismo, vive in quel leaderismo da talk-show che malsopporta la dimensione collettiva dell’agire politico. Nomino con durezza le cose, anche se sono solo minuscoli indizi di un male che è oscuro solo per coloro che non vogliono accendere neppure una lampadina: il primitivismo e il plebeismo non sono alimenti sani per nutrire il nostro corpo politico, l’opportunismo e l’istituzionalismo non sono i vettori del nostro diventare adulti, l’elettoralismo e la febbre competitiva non sono una sintomatologia occasionale ed effimera. Possiamo affidarci ad un rodeo oppure aprire su questo tema specifico una discussione vera, per rendere permanente il processo di auto-riforma di Sel, perché possiamo capitalizzare viceversa le cose buone e belle che abbiamo, l’intelligenza e le competenze della nostra comunità, le esperienze di chi svolge ruoli delicati e di primo piano e lo fa continuando a rappresentare un punto di riferimento persino emozionante di un’altra idea della politica e dello Stato: lo dico rivolgendo un saluto particolarmente affettuoso e ammirato a una donna speciale come Laura Boldrini, lo dico pensando a Giuliano Pisapia, a Marco Doria, a Massimo Zedda, a tanti nostri sindaci e amministratori, che vivono la prova del governo con serietà, con realismo, ma senza vendere l’anima al diavolo. Lo dico pensando al lavoro parlamentare, in cui stiamo imparando ad essere opposizione ma non curva da stadio, cercando sempre di dare competenza e cultura di governo alla nostra irriducibilità alla deriva delle larghe intese. Siamo là dentro, nella Commissione antimafia o nella Giunta per le immunità, non a scassare le istituzioni ma a metterle in sintonia con le domande di moralità e cambiamento. Lo dico sapendo che stare là dentro non serve a nulla se non costruisci una relazione strutturata e persino emozionata con il fuori Lo dico alla nostra gente, ai militanti, a chi ci guarda con simpatia: abbiamo con numeri elettorali modesti contribuito a costruire svolte e processi assai significativi, abbiamo inseguito un progetto generale piuttosto che un interesse particolare, abbiamo pensato alla coalizione piuttosto che alla bottega, a far vincere l’Italia migliore piuttosto che guadagnare lo zero vergola più qualcosa nei nostri benedetti sondaggi quotidiani. Siamo fragili, spesso disorientati e magari feriti dalle cose che accadono. Ma noi siamo una risorsa per il nostro Paese, è solo su questa consapevolezza che fondiamo la nostra autonomia intellettuale. Di questa autonomia siamo gelosi. E siamo orgogliosi di aver camminato sulle nostre sole gambe per tanti anni, in solitudine, attraversando il deserto della sinistra e la giungla della destra, di aver provato a dire al mondo che era questo il tempo in cui occorreva darsi coraggio, non per cancellare le tracce del passato ma per tuffarsi senza paura nel cambiamento, in questo futuro che a volte sembra un cannibale che si nutre voracemente del nostro presente e ci lascia sempre con la sensazione di uno spiazzamento. Ma l’orgoglio legittimo non deve essere usato per occultare i problemi di costume e di organizzazione, di radicamento e dei selezione dei suoi gruppi dirigenti: per questo vi propongo di ritrovarci, dopo l’estate, in uno specifico lavoro di riforma del partito e della sua forma, in quella che un tempo avremmo chiamato conferenza di organizzazione e che invece è il tema decisivo del vivere insieme l’avventura della politica, del costruire la nostra soggettività svuotandoci di antiche prassi e di codici organizzativi che oggi sono solo forza inerziale delle consuetidini: in quella sede, dandoci il respiro di una meditazione non strumentale, possiamo progettare un salto dal partito-gerarchia al partito-comunità.
A Renzi, leali ma non sottomessi…
Come si vede anche per noi l’innovazione è il contrario di una retorica novista. Con questo spirito mi rivolgo al leader scelto da milioni di elettori alla guida del Pd: con rispetto, con speranza, con apertura, senza pregiudizi, ma anche senza alcuna sudditanza. Voglio dirlo con schiettezza all’amico Matteo Renzi: noi non ci lamentiamo della sua proposta di riforma elettorale per ragioni soggettive, di nostra sopravvivenza, ma per ragioni complessive che riguardano il merito, il metodo, persino l’anima di una “mossa” che, a fronte di anni e anni di inerzia, oggi usa la velocità del comando politico per comprimere la procedura democratica. Io non ho apprezzato che alla base di questo tentativo di riforma ci fosse l’intesa con Berlusconi, tanto più perché quella intesa è segnata da un elemento assai grave di opacità: non si può ignorare il tema della ineleggibilità a causa del conflitto di interessi, come se la storia democratica dell’ultimo ventennio non fosse stata vulnerata proprio dalla commistione inedita e ciclopica di potere economico, di potere mediatico e di potere politico. Altrimenti non si capisce in cosa consista il cambiamento, se resta attiva la tenaglia e se permane il ricatto di un dominus che, per il cumulo esorbitante di poteri, si pretendeva e tuttora si pretende legibus solutus. Così come appare difficile da spiegare che, nel nome della governabilità, occorra coniugare un abnorme premio di maggioranza e altrettanto abnormi soglie di sbarramento, con l’argomento malato e inascoltabile che l’Italia sia stata strangolata dai piccoli partiti. Detto da Berlusconi che ha governato con se stesso, con Monti e con Letta, quasi ininterrottamente negli ultimi cinque anni, e che i piccoli partiti li ha costruiti con la scandalosa compravendita di parlamentari, si rischia davvero di buttarla in rissa. Prendere lezioni da chi ha incarnato agli occhi del mondo l’immagine stessa della corruzione, del mercato del denaro e della carne, non è davvero possibile. Noi non siamo abituati alla polemica con la bava alla bocca, non ci piace l’insulto e il disprezzo, ma non ci si chieda di dimenticare il dolore e la vergogna che abbiamo vissuto per quella girandola di mafiosi faccendieri ruffiani escort e loro rispettivi portaborse che ha riempito la scena istituzionale nella infinita stagione della destra. Non ci si chieda di dimenticare che il porcellum era l’atto vile e lurido di chi intendeva inquinare i pozzi della democrazia italiana e che noi dobbiamo seppellirne il cadavere. Ma questa sepoltura è reale se si parte dal tema vero che il nostro legislatore è chiamato ad affrontare: come si curano le ferite della democrazia, come si accorcia la distanza tra la società e la politica, come si restituisce sovranità ai cittadini. Non usate la polemica contro i piccoli per mascherare la bulimia dei grandi, se poi i piccoli sono utili a raggiungere il premio di maggioranza pensate davvero di ricompensarli con la pena di minoranza? Guarda caro Renzi che l’abbraccio col caimano è una specie di maledizione che perseguita la sinistra moderata, la quale ha pensato sempre di poterlo smontare e ne è uscita smontata. Guarda caro Renzi che noi, Sinistra ecologia e libertà, siamo leali ma non sottomessi, siamo col Pd nelle prossime tornate amministrative – ovunque sia stato possibile convergere in una unità di programma e di coalizione, magari attraverso lo strumento-chiave delle primarie, e qui diciamo il nostro “in bocca al lupo” ad Alessandro Zan che corre nelle importanti primarie di Padova: e vogliamo vincere in Sardegna e in tutte le città in cui si voterà. Ma non chiederci di essere convocati a cliccare un “mi piace” perché tu hai fretta di annunciare la palingenesi. Anche perché non vi è nulla di palingenetico in norme pasticciate e in odore di incostituzionalità. Anche perché una riforma sbagliata può aprire varchi nuovi e insperati ai blocchi populisti che gareggiano per vincere e non per guadagnare un diritto di tribuna. E poi lo dico alla cultura liberale di un Paese in cui tutti si dichiarano liberali: vi sembra liberale questa supponenza e questo livore nei confronti delle minoranze? Voi avete sulle vostre pareti i poster di grandi personalità che hanno cambiato la storia del mondo: ma ciascuna di quelle personalità non si è dovuta affermare come minoranza attiva per poi accrescere la forza della propria testimonianza? Piero Calamandrei fu un protagonista limpidissimo e autorevolissimo dell’Assemblea Costituente, in cui fu eletto deputato nelle file di una formazione, il Partito d’Azione, che guadagnò l’1,5% dei voti. Nella melmosità e vischiosità del degrado della vita pubblica non vi pare che ci siano gli ingredienti di una livida auto-biografia della nazione e delle sue classi dirigenti, e che forse occorrano idee di minoranza per scuotere il grigiore e la pigrizia delle idee di maggioranza? Mi fermo qui, e chiedo ancora scusa per la franchezza. Ma se intendiamo costruire un dialogo e un’alleanza, allora lo spirito di verità non può che venirci in soccorso, non dobbiamo avere paura della sincerità, dobbiamo avere paura dell’ipocrisia. Io apprezzo la nettezza con cui il sindaco di Firenze ha posto l’urgenza di colmare il ritardo che abbiamo cumulato in Italia dal punto di vista dei diritti e delle libertà civili: se lui dice civil partnership noi diciamo “finalmente!”, questo è un passo avanti, anche se il nostro orizzonte e il nostro programma dicono una cosa in più, e cioè diritti interi e diritti eguali per tutti e per tutte, e dunque matrimonio gay. Ma questa differenza non divide, io penso che arricchisce. Io apprezzo l’ostinazione con cui Renzi mette al centro dell’agenda di governo la questione del lavoro, sono ovviamente piacevolmente sorpreso se si comprende che una moderna questione democratica non può più rinviare i conti con i diritti dei lavoratori, il diritto a poter contare e decidere sui propri contratti, il diritto a votare, a scegliersi il proprio sindacato, il diritto ad avere diritti. Mi permetto di ricordare a noi stessi che cambiare le regole del mercato del lavoro serve al massimo a riorganizzare il lavoro che c’è ma non a inventare nuovo lavoro, e che quelle regole sono state spesso cambiate, peggiorate, stravolte, fino a determinare una tale alterazione sociale che oggi registriamo più lavoratori precari che lavoratori a tempo indeterminato. E allora serve la mano pubblica che guidi un piano per il lavoro, che non è una ricetta assistenzialistica ma la ricostruzione del circuito virtuoso che fa girare l’economia, col sostegno alla domanda interna, e allarga le basi produttive della nostra società: nulla di eretico, nulla di ortodosso, un classico delle politiche anticicliche, solo un principio di realtà che ha sempre funzionato, che ha dato speranza alla gente e ossigeno alle imprese. E aggiungo che, dinanzi alla proporzione catastrofica della disoccupazione e della povertà, il tema – come dire? Europeo – del diritto al reddito si pone come un altro snodo cruciale per il destino democratico dei nostri consorzi sociali. Io spero con sincerità che il sindacato torni a porre la vertenza lavoro come lotta generale (lotta alla disoccupazione, rivendicazione di migliori salari, salubrità e sicurezza dei luoghi di lavoro, conciliazione dei tempi di vita e tempi di lavoro, formazione permanente e stabilizzazione della forza di lavoro) e non solo nei negoziati con le forze datoriali e col governo, ma che torni a piantare quella bandiera nelle piazze. Perché, oggi come cento anni fa, solo le bandiere dei diritti soppiantano i forconi e i vessilli populisti che radunano la paura e il rancore sociale. Lo dico con sollecitudine particolare alla Cgil, a un sindacato che credo senta più di altri il tema di un nuovo patto con il mondo del lavoro e del non lavoro, capace di restituire rappresentazione sociale e rappresentanza politica a tutto il lavoro che c’è, a quello spezzato o distillato nella contrattazione a giorni o a ore o a progetto, a quello che teme ancora gli effetti della crisi, a quello in formazione nei luoghi del sapere e dell’apprendistato. Insomma si tratta di rimettere la politica di fronte a un lavoro globalmente spogliato di potere negoziale e di valore sociale. Si tratta di intendere bene che l’impoverimento del lavoro, il suo regredire a livello di fenomeno privato, trascina un impoverimento di tutta la cultura della democrazia e della convivenza. Appare poi curioso parlare di penuria di lavoro in un Paese da ricostruire, in un’Italia che si presenta del tutto impreparata agli appuntamenti cruciali della mutazione climatica e degli eventi meteorologici estremi, che affonda nel fango e nelle crepe del dissesto idrogeologico, che non investe più in edilizia scolastica e in messa in sicurezza del territorio, che paga giorno dopo giorno le conseguenze della dissennatezza di un modello tutto vorace e speculativo di valorizzazione mercantile del suolo, che insegue frane e incendi boschivi con la logica dell’emergenza e non con quella della prevenzione, che scopre con qualche decennio di ritardo il fuoco camorrista che ha bruciato con i suoi residui tossici un pezzo di Sud e il fuoco ndranghetista che ha asfaltato di veleni le strade della Padania. Siamo vicini alle popolazioni di questa regione che ci ospita e che hanno dovuto fronteggiare prima un terremoto e ora una alluvione.
E’ il fango la metafora più adatta a descrivere l’Italia che sprofonda, che barcolla, che inciampa.
Il fango delle strade schiantate e dei ponti travolti, il fango del malcostume che smette di essere patologia e diviene fisiologia della vita pubblica, il fango della mafia che ancora cerca la sua sfida, magari contro un magistrato che fa il suo dovere o contro il vertice del Senato: al Pm Di Matteo e al Presidente Piero Grasso tutta la nostra più affettuosa solidarietà. Ma è anche il fango delle macchine mediatiche e politiche che il berlusconismo ha sdoganato a destra come a sinistra, in un ventennio in cui la delegittimazione del potere giudiziario ha prodotto una formidabile reazione difensiva ma ha anche bloccato la speranza di vivere in uno Stato di diritto sotto la giurisdizione di una giustizia giusta, e cioè di vivere rispettando le leggi e sentendosi rispettati dalle leggi. A me è capitato di fare la più paradossale delle esperienze, di vedere rovesciato il senso medesimo della mia vita, di sentirmi spellato e lapidato dall’uso strumentale e sensazionalistico di fatti giudiziari. Lo ricordo solo perché il mio cognome compare nel simbolo del nostro partito, e io spero che vogliate accogliere la mia richiesta di restituzione: perché non sono il proprietario del partito e perché io sono una persona e non ho sempre voglia di sventolare come una bandiera. Ma il mio cognome è stato in questi anni sbattuto in prima pagina accanto a notizie di reato che i processi hanno poi sistematicamente smentito, io servivo a mettere in equilibrio – nella bilancia del racconto della malapolitica – le vicende di Dell’Utri, di Cosentino, di Formigoni, e di altri campioni della legalità. Sento l’orgoglio di aver vissuto sempre con la schiena dritta, di non essere stato sul libro paga di nessun padrone, di aver sfidato anche il più protetto tra i giganti dell’industria: fatico a pensare che, se invece di aggredire i Signori dell’acciaio con inedite leggi ambientali, fossi stato inerte, se non avessi scoperchiato quei duecento camini sempre vergini per le classi dirigenti che si sono alternate nel corso di 45 anni, io non sarei chiamato a rispondere di alcunché. Non è una bella lezione. E per me non è bello neppure rinunciare cento e mille volte al diritto alla difesa quando l’accusa si fa con processi improvvisati e clowneschi, visto che il rispetto che nutro per la funzione di controllo della legalità mi impone di affrontare nei luoghi deputati il contraddittorio col mio inquisitore. Il cancro è stata una delle ragioni del mio fare politica, ha frequentato sempre il mio network di affetti, è stato il bisturi che ha tagliato relazioni ricche. Vederlo in qualche modo come un prodotto dell’alterazione dei cicli naturali, come lo sbocco fatale dell’inquinamento, decifrarne la natura senza subirne la costruzione culturale di “male oscuro” e denunciando lo stigma che spesso accompagna le malattie che più spaventano: anche questo è stata la nostra educazione sentimentale alla militanza. Come imparare la storia di Marco Cavallo e della rottura della contenzione psichiatrica. Come denunciare i reparti confino o il fuoco e il fumo molesto del siderurgico che aprivano ferite profonde e durevoli in quella Taranto che spesso appare, insieme, così splendida e così disperata, in quella capitale del nostro Sud che, al di là della struggente poesia del suo mare e della sua città vecchia, si sentiva sempre più sporca di polveri industriali e sempre più soffocata dai veleni.
Ecco, compagne e compagni, questo è ciò che mi premeva dire, di politico e forse anche di pre-politico. Io sono stato un dirigente spesso assente e distratto, perché governare la Puglia è il mio dovere fondamentale, ma per me è anche come un amore che ricomincia ogni giorno. Noi stiamo imparando a camminare e il sentiero è impervio e pieno di trappole. Viviamo un tempo opaco, ma non mancano i segni luminosi di un possibile tempo nuovo. C’è tra noi, così mi sento di dire, un uomo venuto dalla fine del mondo, che in un rapido cambio di stagione ha vestito il suo luogo, che è un tempio, di povertà e di curiosità per il mappamondo nella sua interezza. Da quel luogo di provenienza ha portato con se una liturgia meno separante e formalistica, un linguaggio meno aulico e sfuggente, una semplicità evangelica che non ha timore degli dei che governano la nostra dimensione terrena. Non so dire se la critica del liberismo sia il frutto di una intelligenza teologica, ciò che so che nella sua riforma oggi la Chiesa cattolica col suo pontefice rompe il conformismo del pensiero dominante. Lo fa non con le formule generiche di certe omelie che sfiorano allusivamente le questioni più incandescenti, ma con la capacità di nominare con precisione il potere che genera impotenza, la ricchezza pagata dalla povertà, l’arte della pace fiaccata dall’industria della guerra, i diritti umani conculcati dalle leggi disumane del mercato e del profitto. Il successo di Papa Francesco è anche figlio della saturazione di un ciclo, quello in cui la privatizzazione del mondo ha moltiplicato a dismisura le solitudini e la miseria. Noi dobbiamo scommettere molto su questo passaggio: andare oltre la parabola dell’individualismo predatorio e proprietario, cogliere e filtrare i segni sempre più evidenti di quel bisogno di comunità che può essere lievito di cambiamento e non ripiegamento negli accampamenti dell’integralismo. L’individuo umano concreto, di cui parla Marx nelle celebri tesi su Feuerbach, cerca e trova il senso della sua esistenza nella relazione con il mondo esterno, con gli altri, con l’alterità. L’individuo, per dare valore alla sua singolarità, ha bisogno del molteplice. E dentro di sé, nella sua dimensione identitaria, nella sua creaturalità, non è mai riducibile ad una cosa inerte, ad una merce, a pura materia: resiste alla violenza di qualsivoglia potere intenda mutilarne l’umanità, alla tenebra che minaccia di inghiottirlo oppone il suo appartenere alla specie umana. Questa individualità concreta poi propone il proprio vissuto, di uomo o di donna, di collocazione sociale e anagrafica, è una persona, un soggetto che agisce dentro un contesto, che cerca di opporre alla finitezza del suo destino la ricerca di un senso. Anche le sconfitte possono avere un seme buono che si deposita sulla terra, ed è questo pensiero che lascia sempre un margine di inquietudine in chi vince: Ingrao lo chiama “il dubbio del vincitore”. Penso a Gramsci che attraversa tutto lo spazio della propria sconfitta esercitando un titanismo intellettuale e morale che Pasolini definirà “leopardiano” e a come dal seme di quella sconfitta sia germogliato un pensiero nuovo e fecondo. Penso all’albero su cui Langer decise di chiudere i conti con i propri tormenti; ma tuttavia lasciò scritto: “non siate tristi, continuate in ciò che era giusto”. Non volevo fare considerazioni tristi: semplicemente dirvi che abbiamo tutto il diritto di chiedere a noi stessi e alla nostra politica di guardare un po’ oltre il campo visivo della dimensione istituzionale, di saper vedere ciò che sta sotto e ciò che sta sopra il Palazzo, le vite vive che urtano al muro delle compatibilità, che desiderano spazi e tempi da riprogettare, che ambiscono alla bellezza, che nello sguardo e nell’abbraccio ritrovano se stessi e il senso della loro, della nostra comune avventura umana.
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