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Giovedì, 27 febbraio 2014

Roma siamo noi

astolfo

“Domenica blocco la città”.  Dove la città è Roma e a dirlo è il suo sindaco. Salta il decreto e finiscono per saltare, giustamente, anche i nervi. A dire il vero noi, che non siamo romani e pur ci viviamo da anni, pensiamo che la città sia bloccata da tempo. Bloccata vuol dire che sperpera e sciupa la sua “grande bellezza”, che si offre allo sguardo di chi la incontra, ogni giorno o nel viaggio della vita arrivandoci da ogni latitudine del mondo, perpetuamente trasandata e incurante di sé.

Quasi tutto, e da tempo, qui funziona ben al di sotto dello standard medio basso di qualsiasi altra grande capitale. Dal trasporto pubblico alle code niente affatto anglosassoni agli sportelli (che so, dell’Acea, per fare un esempio che ti mette appena entri lì dentro in relazione col surreale). C’è sempre un momento, vivendola, in cui senti che si fa perdonare. Ma se lavori, se ti devi muovere e vuoi essere puntuale col tuo prossimo, ti fa quasi sempre innervosire. E ti affatica. La città è stata bloccata, nel senso di depredata, involgarita, negli anni in cui ha governato la destra con Alemanno sindaco.

Da meno di un anno tocca a Ignazio Marino e quel “daje” che lo fece volare in campagna elettorale ancora non si vede come vorremmo. Ma occorre dare tempo, l’eredità è schiacciante, soprattutto quella delle risorse necessarie per poter ripartire. Occorre anche non lasciarlo solo, come è tentato spesso di fare il suo partito. E occorre non delegare l’esercizio della nostra democrazia alla domenica in cui si compie il rito dei gazebo con le primarie e poi stare gli altri cinque anni a vedere come va a finire. La politica ha le sue colpe, e sono quelle, tra i diversi colpevoli d’aver ridotto la capitale in questo stato, più pesanti e durature. Ma non esiste una politica senza aggettivi, una politica e basta. Esiste sempre una politica che trascura, una politica dissipatrice e avida che succhia fino al midollo le risorse dei cittadini a proprio uso e consumo, di parte o addirittura personale, una politica che alla fin fine distrugge.

Questa è stata la politica della destra nei cinque anni passati. Ed esiste una politica che costruisce. Relazioni, pratiche, socialità, comunità, solidarietà, una politica che pensa la città a partire da un progetto di rinascita da offrire ai suoi cittadini come al mondo, perché “questa” città, comunque la si pensi e fuor di retorica, è del mondo e chi non lo capisce è fuori dal mondo. Questa è, dovrebbe essere, la politica della sinistra e a Roma, per tante ragioni, ancora non la vediamo come vorremmo.

Allora esercitiamo la giusta critica verso chi amministra, apriamo conflitti e vertenze, teniamo la corda tesa del controllo, della corrispondenza  tra promesse e atti compiuti. Dipende anche da noi. E chiamiamo in causa, come responsabilità primaria, l’inettitudine di una classe dirigente nazionale che non è ancora riuscita, con i governi delle “larghe intese” che si sono succeduti fin qui, ad occuparsi seriamente delle sorti della Capitale una volta per tutte. Ma giungere al punto di bocciare un decreto e mettere la città sull’orlo del fallimento è un altro, se pur diverso, gesto di colpa della politica. Nella fattispecie della Lega e del Movimento 5 Stelle.

D’accordo, si va avanti ogni volta per decreti. D’accordo, esiste la pessima pratica di infilare dentro quei decreti furbesche norme su materie che poco c’azzeccano col succo che si dovrebbe portare a casa. Ma nella bilancia del governare, e del decidere, ci sono pur sempre due piatti su cui caricare le proprie scelte, nel momento cruciale di compierle. E se su uno di questi piatti ci trovo la possibilità o meno di tenere aperti gli asili nido, il gasolio per far uscire gli autobus dal deposito, di passare il mattino a raccogliere anche i nostri rifiuti, le risorse da destinare alle popolazioni colpite dall’alluvione in Sardegna e nel modenese, se ci trovo i lavoratori dei servizi di pulizia delle scuole, tutti precari, che perdono da un momento all’altro posto e stipendio, a Roma come all’Aquila, allora posso sbandierare fin che credo che mi batto contro questa o quella parte insufficiente o persino sbagliata del decreto. Il mio gesto, c’è poco da fare, va solo contro il cittadino e la sua vita quotidiana vissuta da perpetuo acrobata metropolitano. Se la politica non sa distinguere, non riesce a separare, a demolire quel che c’è da demolire e insieme a salvare quel che appartiene al bene comune, diventa inconcludente. Raccoglie rabbia e rancore, esercizio piuttosto facile dati i tempi, ma anziché tramutarle in cambiamento concreto, reale, le strozza soltanto in un ghigno funesto. Non si chiama politica e anticipa il niente.

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