Scuole, insegnanti e cuneo fiscale. Il dovere di dirlo, il diritto di saperlo
“Bisogna equiparare gli stipendi degli insegnanti italiani a quelli europei”. Esordisce così Stefania Giannini appena mette piede al ministero dell’istruzione. Era ora, finalmente. Da quanto tempo è che lo diciamo e lo scriviamo nei nostri documenti, nei programmi, nelle assemblee, nei dibattiti. E ogni volta inascoltati, ogni volta delusi dai governi, specie dai nostri governi di sinistra quando ci sono stati. Bravi a mettere con tutta l’enfasi possibile il sapere al primo posto del programma prima del voto e poi a modellare la scuola come fosse un’impresa privata e non un bene pubblico, così come sancito solennemente dalla Costituzione.
Di quel bene pubblico gli insegnanti sono stati a lungo, e ancora in gran parte restano, la spina dorsale che ha tenuto alto il sistema formativo italiano nel confronto con quelli di tutta Europa, per non parlare del resto del mondo. Ma il trattamento che hanno ricevuto è stato, da sempre, il più basso al raffronto con i loro colleghi degli altri paesi. L’espressione “finirai per fare l’insegnante”, dai tempi di Platone in poi una delle più nobili nell’indicare l’elevatezza morale e civile di una professione così delicata e complessa, ha finito per essere, in Italia, sinonimo di un lavoro di ripiego, di carriere frustrate e immobili, a partire proprio dalla busta paga. E allora, dai, aumentiamoli finalmente questi stipendi, diventiamo davvero europei. Certo, affiniamo i sistemi di valutazione, oggi aleatori, ma questa, se la facciamo, sarà una spesa utile, utilissima per le tante ricadute che avrà nella società.
Come utile, utilissima, sarà la spesa, già annunciata dal premier in persona tre giorni fa quella di mettere al primo posto delle cose da fare del suo governo (anche se oggi figura prima nella sua hit parade il job act) un piano straordinario per l’edilizia scolastica. Giusto, giustissimo, finalmente. Scuole fuori norma da anni, ben più di un terzo dell’intero patrimonio scolastico nazionale, nelle quali crolli e incidenti sono quotidiani, gli impianti elettrici pericolosi, quelli antincendio assenti, norme antisismiche neanche a dirsi e dio solo sa l’apprensione malcelata con cui ogni mattina lasciamo entrarci, in scuole così, i nostri bimbi e ragazzi. E allora via, dai, adesso si parte. Deve arrivare giugno, perché le lezioni non si devono interrompere, ma poi da lì in poi e fino a settembre ecco che entrano geometri, muratori, imbianchini, elettricisti, falegnami e tutto sarà in regola, tutto sarà come nuovo. Poi, una volta che avremo sistemato le scuole e adeguato lo stipendio degli insegnanti, se vogliamo che entrino anche gli studenti metteremo mano al portafoglio e finanzieremo il diritto allo studio, negli ultimi anni scomparso quasi del tutto quando la Merkel e gli altri governanti europei, attraversati dalla stessa crisi che ha toccato noi, lo aumentavano al solo semplice scopo di investire nel futuro dei loro paesi.
Sarà allora un’altra Italia, sarà finalmente la nostra Italia, forte e solida in quel che a lungo ha avuto come fiore all’occhiello e ultimamente aveva perduto quasi del tutto: il sapere, la formazione. E lo studente che tornerà a casa la sera, dopo aver trascorso la giornata in un edificio scolastico sicuro e pulito, educato da un insegnante motivato professionalmente, cenerà coi suoi genitori che, grazie al job act e al nuovo cuneo fiscale, avranno di nuovo un lavoro e un salario più confortevole. Si tornerà ad essere spensierati, se non proprio felici, e il domani riavrà un senso, un senso finalmente umano. Il governo, da tre giorni insediato, dice che farà questo e molto altro ancora. E noi lo prendiamo in parola, vogliamo crederci, per il semplice fatto che sapere e lavoro sono oltre che i due pilastri su cui erigere il futuro del paese, specie delle ragazze e dei ragazzi, anche i tratti fondativi del modo con cui noi, con le nostre “fedi e ossa rotte”, ci ostiniamo a credere nella sinistra malgrado tutto.
Ma non vorremmo apparire ingenui, se non addirittura banali, scontati, nel rivolgere una pregunta, laica s’intende. Come lo fate? Quando lo fate ce l’avete detto. Il job act la settimana prossima e il piano per l’edilizia scolastica prima di san Remigio, cioè entro fine settembre. Ma come lo fate, insomma dove pigliate i soldi? Ci sono già, sono lì, chiusi in un cassetto e finora inutilizzati? Se è così, dateci Monti e Letta che li portiamo dinanzi alla Corte dell’Aja e li processiamo per alto tradimento. Ma se putta caso anche loro avessero voluto fare quel che voi volete fare e, aperte le casse, le avessero trovate vuote, voi come intendete riempirle? Su ragazzi, su questo non facciamo scherzi, di effetti annuncio, crescite di popolarità e consensi preventivi a costo zero siamo esausti. Sappiamo che le elezioni europee sono vicine e sono decisive per i destini anche vostri, ma guardiamoci bene negli occhi. Ce lo dovete dire, è un vostro dovere, è un nostro diritto. Fateci uno specchietto, come fa la Merkel: a sinistra quel che voglio fare, a destra quanto mi costa. In mezzo dove prendo e dove metto. Le “riforme a costo zero” non esistono, non sono mai esistite e quelle fatte a casse vuote i dizionari di economia politica le chiamano, dai tempi di Adam Smith in altro modo. Sapete cosa c’è scritto all’ultima riga del Job Act di Barak Obama? Una cifra, solo una cifra: 447 miliardi di dollari per finanziarlo. Tanto per dire.
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SandroS