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Lunedì, 15 dicembre 2014

Se lo sciopero è politico

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In piena recessione e arrivati ormai al settimo anno della crisi economica finanziaria, mentre dilagano precarizzazione del lavoro in tutte le forme e disoccupazione senza tregua, e con l’evidenza di uno Stato che, in barba alla vulgata neoliberale del laissez faire, ma poi proprio in ragione delle dominanti politiche neoliberistea dell’Ue, è soprattutto impegnato nel salvataggio del sistema finanziario, la discesa in campo di Cgil e Uil contro Jobs Act e legge di Stabilità appare non solo tardiva ma, a guardare le piattaforme e soprattutto la logica che le ispira, inadeguata. E tuttavia questi forti limiti nulla tolgono al significato e al valore della mobilitazione, che è stata vasta e partecipata, ha coinvolto più di cinquanta città ed è stata anche contrassegnata politicamente dal duro scontro tra il ministro dei Trasporti Lupi (Ncd), intenzionato a precettare lavoratrici e lavoratori del comparto, e il sindacato che ha detto no.

E il significato della giornata resta chiaro anche al di là di come le cose potranno poi evolvere.

Lo sciopero del 12 dicembre è stato infatti caratterizzato soprattutto da una forte dose di politicità, la cui evidenza può essere negata solo da chi preferisce mettere, furbescamente o pavidamente non importa, la testa nella sabbia, arrivando a negare l’evidenza: o da chi non sa più distinguere il grano dal loglio. Il che, come è noto, succede ormai molto spesso. L’ex sindacalista Cofferati, europarlamentare e ora in corsa per le primarie a governatore della Liguria, fa parte a pieno titolo della categoria dei minimizzatori. Interrogato sulla natura dello sciopero, nel corso di un talk mattutino del giorno dopo, ha ripetuto il rosario tipico: Sciopero politico? Ma che dite mai? Sono stati i sindacati a promuoverlo! Niente di più, niente di meno, insomma. Come se la politicità di una vicenda dipendesse dalla ragione sociale degli organizzatori e non invece dalla portata della sfida, dalla dinamica del conflitto, del segno distintivo dell’azione e dalla sua destinazione e finalità. Dal coinvolgimento di donne e uomini, dal senso riconquistato del poter diventare di nuovo soggetti attivi della propria condizione di lavoro e di vita, da ciò che questo produce in termini di nuova consapevolezza. Ma con tutta evidenza a certe orecchie l’idea che uno sciopero sia politico – soprattutto nell’epoca del pensiero unico che viviamo e dello scadimento raso terra della politica – suona più o meno come blasfemo. Soprattutto se è rivolto contro un governo guidato da un partito che ha, almeno alle spalle, una storia di sinistra.

A rendere evidente il carattere politico dello sciopero sono stati d’altra parte i due capi sindacali scesi in campo; la segretaria generale della Cgil, Susanna Camusso, e il leader della Uil Carmelo Barbagallo. Camusso ha gelidamente replicato alla precisazione del premier “Noi comunque andremo avanti” con un lapidario “Pure noi”; e Barbagallo, che ha tenuto a Roma il comizio di chiusura, ha addirittura evocato e invocato la Resistenza a mo’ di riferimento della posta in gioco. Per non parlare dell’aspro confronto di questi mesi, del politically correct continuamente infranto e dell’ irrituale intervento del Presidente della Repubblica affinché sia rispettato il bon ton istituzionale del rapporto tra le parti,

In generale è la stessa decisione di indire uno sciopero generale, è la sua preminente connotazione istitutiva, racchiusa in quel “generale”, che ne stabiliscono la natura politica. Che può essere, ovviamente, maggiore e minore, a seconda del contesto e soprattutto della posta in gioco. Ma di per sé uno sciopero generale non è mai uno sciopero qualsiasi, di quelli in cui sono in gioco aspetti solo parziali, di tipo vertenziale o negoziale; questioni legate soltanto a segmenti specifici del mondo del lavoro o a specifiche questioni territoriale. Con l’avvertenza per altro che anche scioperi di questo genere possono conoscere dinamiche di politicizzazione e di allargamento di tipo generale. Lo furono spesso, per esempio, negli anni Settanta del secolo scorso, quelli indetti dalla Flm, l’allora sindacato unitario dei metalmeccanici, che segnarono a lungo e fortemente l’agenda politica del Paese.

Poiché uno sciopero generale si propone sempre obiettivi che hanno a che fare, almeno intenzionalmente, con tutto il mondo del lavoro o, per meglio dire, con quella parte che gli organizzatori dello sciopero identificano come tale, esso potenzialmente eccede la mera dimensione sindacale e rivendicativa, mettendo in evidenza una connessione tra l’agire sindacale e l’agire politico, tra la dimensione rivendicativa, connessa agli interessi in gioco di lavoratrici e lavoratori, e la dimensione politica che soggiace ai rapporti di forza tra rappresentanze del mondo del lavoro e maggioranze di governo. Sono sempre proprio i rapporti di forza in gioco in uno sciopero generale. A maggior ragione in un tempo come quello che viviamo, in cui molte contiguità tradizionali sono saltate, a cominciare da quella tra sinistra e mondo del lavoro. E oggi la sfida di Matteo Renzi, per consolidare la sua leadership politica in Italia e in Europa, ha al centro, per dichiarazione dello stesso premier, la liquidazione di quel che resta della strutturazione novecentesca del mondo del lavoro, che nelle confederazioni sindacali aveva il suo epicentro. Confederazioni che per Renzi costituiscono soltanto l’ingombro numero uno opposto dai famosi corpi intermedi al libero dispiegarsi dell’attività governativa e, soprattutto, al libero adeguarsi del governo nazionale alle ricette della governance neoliberistaeuropea.

Ma, va precisato a scanso di equivoci, quella dello sciopero generale versione 2014 è anche una politicità che può evaporare rapidamente, perché segnata dallo sguardo all’indietro dei sindacati e dunque intrinsecamente a rischio di residualità e di sconfitta. Oggi la distinzione tra politica ed economia appare sempre più priva di fondamento: è infatti l’economia a guidare le danze e la sfida non solo sul terreno di un’alternativa ma anche su quello di una seria ridefinizione delle cose con il governo, si pone soprattutto a quel livello. E anche i rapporti di forza tra le parti si ridefiniscono su quanto dell’austerità neoliberista si accetta o si mette davvero in discussione. Inoltre, proprio per il suo statuto, lo sciopero generale per esser tale deve fare i conti con le trasformazioni subite, nel tempo, dalla società e dalle forme del lavoro. Lavoratori e lavoratrici si presentano oggi ben oltre la tradizionale platea del lavoro che i sindacati novecenteschi, sempre meno adeguatamente per altro, rappresentano. Ben oltre e disomogenei e articolati, divisi e in solitudine: un lavoro incarnato le cui caratteristiche, il cui contributo alla “produzione di società” sono per lo più invisibili e sconosciute proprio allo stesso mondo sindacale. Al più un dato statistico. Restituire luoghi di condivisione decisionalità rappresentanza democratica, ampia e plurale ricomposizione: questa la vera posta in gioco della sfida e del cambiamento.

Insomma lo sciopero generale del 12 dicembre ha messo in evidenza la portata e il significato che la strategia della nuova leadership di governo intende perseguire, al di là della sloganistica accattivante del premier. Allude apertamente, la strategia di Renzi, alla definitiva eliminazione di quel che resta di una stagione segnata, in altri tempi, dal forte avanzamento del mondo del lavoro sulla strada dei diritti, delle tutele, delle forme della rappresentanza. E poi restata drammaticamente senza seguito. Per questo il 12 è un capitolo che si è soltanto aperto, con esiti tutti ovviamente da scrivere. E tuttavia di per sé politicamente significativo. Con tutti i suoi limiti e le sue contraddizioni.

 

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