Silenzio, parla Agnesi
Puristi, ideologici, impolverati, nostalgici: sostanzialmente ferri vecchi. Siamo così per la stampa e per tanti nella rete, noi della sinistra che chiamano sempre radicale. Siamo così e ben vengano tutte le occasione per scrivere sotto la foto di una piazza con le bandiere rosse che trattasi di ‘stanche coreografie identitarie e nostalgiche’, di riti autoconsolatori dei pensionati di una politica che non esiste più.
E guai, imparate a non mettere il naso fuori di casa perché può accadervi di peggio. Fuori di casa c’è il regno dei liberisti, del mercato globale, del marketing politico e quindi in sostanza dei renziani, dei berlusconiani e dei confindustriali. E’ il loro regno, è la loro stirpe che ha diretto questo grande capolavoro di follia che ha globalizzato il mercato senza globalizzare diritti e democrazia.
L’inglese, o meglio lo slang della lingua globale, l’unico prodotto della globalizzazione destinato ad essere popolare tra i tanti destinati solo a colpire il popolo, è cosa loro. La nuova lingua degli Erasmus, dei cittadini cosmopoliti, dei migranti in cerca di fortuna, in politica è un recinto proprietario.
I capitalisti nacquero recintando le terre comuni con le enclosures e confinando i contadini nella terra di nessuno dell’urbanizzazione forzata, nel degrado apocalittico delle prime città industriali. Oggi confinano la lingua, cacciando tutti gli altri dalla dimensione globale per confinarli nella desolata terra di nessuno dello spazio nazionale.
Loro parlano di ‘made in italy‘, di ‘marketing‘, di ‘digital divide‘, di ‘rockstar‘, di ‘farwest‘, di ‘jobact‘, di ‘net–neutrality‘, di ‘start-up‘, di ‘climate change’, di ‘spending review‘ e riferendosi al Presidente del Consiglio lo chiamano ‘Premier‘. Loro fanno le cene con l’ammuffito Blair, ma a cena il Matteo Renzi del bing-bang serve la pizza parlando rigorosamente inglese: ‘figo’, loro si che hanno il futuro davanti! Padroni del mondo, perché padroni (seppur claudicanti come Renzi) prima di tutto della sua lingua.
Ai poveri, agli ultimi nella scala sociale, a quelli che non hanno una buona scuola perché non possono permettersela, lasciano la pizza senza inglese, l’appello accorato di Salvini a salvare il tostapane dai rapaci della green economy, la difesa della razza italica di Casa Pound, la melassa nazional-popolare della Barbara D’Urso.
Tra il regno del localismo e quello globale, per la sinistra non c’è alcuno spazio. C’è il limbo di un passato che aleggia sospeso sopra l’immaginario del presente. Quello si, ma nient’altro.
Come sia potuto accadere non so. Ma per la stampa italiana una sinistra che si affaccia sullo scenario globale non può esistere, è ridicola, è contraddittoria, sostanzialmente è impensabile. Perché altrimenti fu forzosamente affibbiato l’epiteto di no-global ai primi movimento globali, nati sull’onda del popolo di Seattle? Perché altrimenti evocare la sindrome Nimby, quella della difesa del cortile, di fronte ad ogni ambientalista impegnato a sciorinare i dati sul degrado ecologico dell’intero pianeta? E perché accusarci di copiare la Leopolda, noi che insieme alle Fabbriche di Nichi, per primi portammo il ‘BarCamp‘ nella politica italiana, sotto l’egida del nome del vulcano islandese Eyjafjöll?
E perché altrimenti rimproverarci oggi per Human Factor, un titolo in inglese dato ad un appuntamento di riflessione con ospiti internazionali?
Silenzio, parla Agnesi. E che importa se il pastificio di Imperia chiude i battenti, mentre altri stabilimenti sono stati aperti in Russia e in Romania. Che importa. Mangiatevi il vostro piatto di pasta a marchio italico e grano ogm, in silenzio, al posto che abbiamo riservato apposta per voi.
Sembrano dirci così, in coro, da destra e sinistra. E vien voglia di aggiornare il tanto caro adagio di Brecht: “ci sedemmo dalla parte del torto visto che non ci piaceva il posto che avevano riservato per noi.”
E dunque mi permetto di invitare Massimo Gramellini, che ci oggi ci rimprovera sulla sua rubrica quotidiana su La Stampa e che è un attento intellettuale della sinistra italiana, a Milano per Human Factor, a parlare la propria lingua, a dire ciò che ritiene giusto fuori da ogni recinto e ogni schema.
Perché al fondo, il fattore umano è anche l’imprevisto e l’inaspettato, che non sai mai se chiamare errore o forza creativa. L’incalcolabile che c’è nel dispiegarsi della libertà umana quando incontra la diversità.
Human Factor, Facteur humain, Factor Humano, anthró̱pinos parágontas, גורם אנושי, İnsan Faktörü, Faktori njerëzor, людський фактор, ľudský faktor.
Chiamiamolo in tutte le lingue del mondo, ma non dimentichiamoci che esiste.
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