Soglie e sogliole. Renzi e il Pil degli italiani
Con Mario Monti il tormento mediatico degli italiani era, in qualsiasi ora del giorno e della notte, lo spread. Con Matteo Renzi lo strazio è diventato il pil. Di mezzo c’è stato l’algido Enrico Letta e con lui si andava più sul classico, il suo adagio consisteva nella manovra, sempre di moda al punto che a settembre rientrerà anch’essa dalla sua breve vacanza. Spread, Pil, Manovra: tre tormentoni di uno stesso gioco, quello di un’economia che gira a vuoto su sé stessa, senza produrre da anni un cambiamento in avanti che sia uno nelle condizioni di vita reale della maggior parte della popolazione.
Prendiamo il Pil. Il Governo (cioè Renzi) prevedeva un più 0.8 %. L’OCSE ci dava a più 0.5, il Fondo Monetario a più 0.3, come Confcommercio (che certifica, conti alla mano, come gli 80 euro sborsati con una mano dal governo siano serviti a tamponare le bollette e le tasse aumentate nel frattempo con l’altra mano. Una partitina di giro). La Confindustria chiude la rassegna indicando, insieme a Banca d’Italia, un più 0.2%. Erano stime, erano previsioni, si accettavano scommesse. Ora ecco i dati veri, li certifica l’Istat, esiste proprio per questo: meno (meno) 0.3% è il verdetto. Mai così male negli ultimi 14 anni.
In economia, dai tempi di Adam Smith, c’è una parola che riassume la condizione nella quale torna a trovarsi il nostro Paese capitanato dal Renzi: recessione. Immediatamente dopo viene la depressione. Quella economica, perché quella psichica di tanti italiani c’è già e l’attuale governo sta seguendo la linea di adeguare la prima alla seconda. Lì a Palazzo Chigi minimizzano: si tratta di decimali, dicono. Sbagliano. Perché da un più 0.8 che prevedevano a un meno 0.3 che ci ritroviamo c’è più di un punto tondo e sarebbe ora che al governo i conti li facessero giusti. Con l’Italicum sbagliano l’algoritmo, con gli insegnanti sbagliano la quota, con il Pil confondono i decimali con gli interi. Possibile che non ci sia dentro il giglio magico qualcuno che sappia far bene di conto? E poi sbagliano a sottovalutare l’enorme importanza dei decimali in quanto tali.
Gli scienziati, ad esempio, sono concordi nel ritenere che la differenza tra il cervello dell’uomo e quella dello scimpanzè (parliamo del volume cranico) sia solo dello 0.3%, proprio come il dato dell’Istat che fotografa l’economia italiana nell’era del Renzi. Un dettaglio, ma che ti cambia la vita. Dunque, con i decimali non si scherza. Questo dato del Pil l’Istat lo sforna nel preciso istante in cui il Renzi, dopo tre ore di birignao con Berlusconi, dichiara soddisfatto: Passi avanti sulle soglie. La questioni in Italia è in fondo proprio questa: Renzi trascorre la giornata a fare passi avanti sulle soglie, gli italiani a fare passi indietro sulle sogliole. Cioè a peggiorare a tal punto nella qualità e dimensione dei loro consumi quotidiani da mettere in discussione, per la prima volta dai tempi ottocenteschi della pellagra, la spesa alimentare in famiglia. Come se il Renzi, fatte le debite proporzioni, fosse costretto a rinunciare al suo summit settimanale con Berlusconi e Verdini, gli statisti di riferimento per le sue soglie.
Ora che l’Istat ha fatto il suo lavoro e che questo è consistito nel dare conferma numerica di quel che già tutti noi a reddito fisso e basso sapevamo, c’è da scommettere quel che succederà nel dibattito pubblico. Si invocherà una scossa, una svolta, un segnale forte da parte del governo. Lo chiedono l’andamento delle borse e dei mercati, le politiche di rigore delle oligarchie europee, incuranti di quel bolscevico di Bob Kennedy che nel lontano 1968 ammoniva di non misurare lo spirito nazionale sulla base dell’indice Dow Jones, né i successi del paese sulla base del prodotto interno lordo, ma su un’economia che metta finalmente al centro la vita reale della persona. E il governo renziano (a retromarcia montiana quando si tratta di economia) a settembre sfornerà una manovra, la stessa che oggi nega.
La manovra andrà ancora una volta sul classico: aumento di qualche tassa, taglio di qualche reddito, allungamento dell’elenco delle privatizzazioni attraverso cui si svende il patrimonio di un Paese come nessun altro al mondo sta facendo. Perché, in fondo, il cinetico presidente del consiglio è un incantatore di serpenti quando parla mani in tasca ai senatori o a braccio ai deputati europei, ma quando si tratta di affrontare la questione delle questioni, quella sociale, ecco che diventa scontato, noioso, ripetitivo. Montiano, appunto, neppure lettiano. Adopera lo stesso schema di gioco con cui si sono fin qui perse tutte le partite.
La sua visione dell’Italia è la seguente: alle frontiere premono frotte di investitori stranieri pronti a comperarsi il Paese e a investire. Ma restano lì, come negli assedi delle crociate, fintanto che “la politica” non fa le “riforme”. Quelle sociali, che so, una strategia industriale per i prossimi decenni, un piano per l’occupazione dei giovani, uno per la qualità del territorio che si sbriciola? No, quelle istituzionali, che dovranno fare contare di meno il parlamento e di più il governo, rovesciando in pratica lo spirito della Costituzione, come continuano a chiederci i vertici della JP Morgan, la società che più conta nel mondo finanziario globalizzato. Agli assedianti bisogna “dare fiducia”. E allora via con il Senato, per intanto. Poi qualche mese dopo la manovra, sempre l’Istat certificherà quel che è sin troppo facile prevedere: la povertà sarà di nuovo aumentata, il sud si sarà spostato ancor di più verso sud, la recessione avrà spalancato le porte alla depressione. A quel punto, c’è da scommettere, il giglio si sarà trasformato in cerchio. E la magia in risveglio.