Somo todos brasileiros
Che il calcio sia metafora della vita lo diceva Albert Camus e c’è da crederci, dopo questa particolare partita, ancor di più. Faceva il portiere, da ragazzo, in una qualche squadretta algerina e poi, per nostra grande fortuna, ha smesso per diventare scrittore. Qualcun altro s’è divertito – ma non poi tanto – a definire i sociologi quegli individui che vanno allo stadio per rivolgere la schiena al campo di gioco, il modo più diretto per studiare i comportamenti umani.
Questi due riferimenti al più popolare tra gli sport mettono bene a fuoco il senso del 7 a 1 di Germania-Brasile, quel che è successo in campo e quel che succede e succederà adesso fuori dal campo. Sul campo si sono misurate due squadre, due tecniche, due scuole, due moduli. Come sempre succede. E come sempre succede, in una competizione così, una delle due deve vincere. Ma in questo caso la vittoria è diventata dominio e il dominio umiliazione, sberleffo, presa in giro.
I sociologi presenti allo stadio di Belo Horizonte (perfida ironia del nome di una città dove l’orizzonte dei carioca si è inabissato) non avranno visto nessuno dei 7 palloni insaccarsi nella rete di Julio Cesar Soares Espìndola ma chissà quanti appunti avranno preso dai volti prima sorpresi, poi increduli, subito dopo sgomenti, a metà partita piangenti e alla fine rabbiosi dei tifosi brasiliani trafitti in casa loro nel morale più ancora che nel risultato. E tutti adesso a chiedersi: era proprio necessario che i teutonici tardoprussiani arrivassero proprio fino a quel punteggio ultratennistico?
Va bene, è la squadra forse più in forma del torneo, la più organizzata e concreta, quella che ha più fiato, non è costruita sulla rendita di un campione (come il Brasile con Neymar) ma sulla coralità del gruppo dove ognuno si mette a disposizione dell’altro in ogni parte del campo. Ma non era il caso, ad un certo punto, di rallentare un po’, di mettere in pratica quel bon ton sportivo che consiste nel mettere al sicuro il risultato senza bisogno di infierire? Chissà. Lo sport è sport, una partita con tanti gol è comunque un divertimento, gli stessi spettatori brasiliani alla fine hanno applaudito gli avversari, che potevano fare?
Ma c’è Camus a dirci che il calcio è, appunto, la metafora della vita. E nella vita odierna, quella della lunga crisi per intenderci, la Germania con la sua locomotiva economica tira dritto a mille anche a costo di staccare da sé i vagoni europei da cui pure trae una delle ragioni del suo essere così forte. Se con i propri alleati non è generosa, al punto da chiamare “inaffidabili” quei paesi oggi debitori, gli stessi che ieri hanno generosamente patteggiato con la debitrice Germania uscita a pezzi dalla seconda guerra mondiale, come può dimostrasi clemente in una gara calcistica dove l’agonismo dà il senso più vero della contesa?
Fosse stata l’Italia al suo posto, ne siamo sicuri, già sul 3 a zero si sarebbe messa a fare passeggini innocui mandando il pallone indietro al portiere. Altro carattere, altro stile. In fondo, questa la verità, a noi sale la rabbia adesso nel vedere frau Angela che si esibisce in una di quelle sue immagini saltellanti nelle quali, pugni all’aria, sta per far saltare il bottone della giacca che a malapena la contiene. I pugni, poi, sono entrambi chiusi, e per noi di sinistra è quasi una beffa. La felicità, ironia della storia, ha i simboli antichi della sinistra e questo spiega, almeno in parte, la nostra odierna ipocondria nel non riuscire ancora a trovarne di nuovi con cui esultare una volta tanto, quando pure ne capitasse, sul campo e fuori dal campo, l’occasione. “Ich bin ein Berliner”, siamo tutti berlinesi, si diceva diversi anni fa di fronte a un triste passaggio della storia. Dopo questo 7 a 1 e più scontatamente ci sentiamo di dire “Somos todos brasileiros”. E così, al novantesimo, ci consoliamo.
Commenti
-
Guido Conti
-
Lucilla Calabria
-
Lucilla Calabria
-
charlie