Sul sud non si cambia verso
Non aveva destato grande clamore l’assenza, nel discorso d’insediamento di Renzi, di qualunque riferimento al Sud. Molti – almeno tra gli osservatori che per il tema conservano qualche interesse – ne avevano però tratto la convinzione che neopresidente incaricato sulla questione del Mezzogiorno fosse quanto meno distratto. Sbagliavano. Anzi, sbagliavamo, visto che i parlamentari di Sel furono tra i pochi a far rilevare nelle aule parlamentari questa lacuna nelle dichiarazioni programmatiche del presidente incaricato; anche se, va detto, la contemporanea abolizione del ministero della coesione territoriale si prestava a ben poche interpretazioni.
Il governo, con le ultime dichiarazioni del sottosegretario alla presidenza del consiglio Del Rio, invece, al Sud ci pensa. E ci pensa annunciando il ricorso la “programmazione parallela”, una formula già utilizzata in passato ma per correggere gli indirizzi di spesa del ciclo in corso; qui invece gli effetti, cioè lo storno dei finanziamenti UE, verrebbero anticipati. La sostanza è che una parte considerevole del cofinanziamento dei fondi strutturali europei del ciclo 2014-2020 destinati alle tre regioni meridionali tra quelle comprese nell’Obiettivo 1 che sono state meno efficienti nella spesa dei fondi UE (Calabria, Campania e Sicilia) verrà stornato verso un non meglio identificato programma territoriale. Detto più chiaramente: il taglio del cofinanziamento nazionale, portato dal 50% al 25%, si concretizzerà in minori risorse quantificabili da subito in 12 miliardi di euro. Per la Campania il rischio è di perdere la disponibilità di circa 4 miliardi di euro.
Non c’è dubbio che la proposta di centralizzare almeno parte dei fondi per renderne più efficace l’impegno e la spesa, allo scopo di evitare che, come è successo per il precedente ciclo 2007-2013, una parte consistente non venga spesso nemmeno impegnata – e così perduta – rappresenta un plausibile tema di dibattito. Assai diverso è presentare come rimedio a questa oggettiva inefficacia nell’utilizzo dei risorse europee la loro riduzione per le tre regioni peggio posizionate che invece necessiterebbero di progetti, idee, programmi in grado di assicurare l’impiego di quelle risorse per le finalità per cui sono stanziate: l’almeno tendenziale riequilibrio sul piano economico e sociale delle aree svantaggiate della UE.
Il rischio, come denuncia il presidente della Svimez, Adriano Giannola, è che questo dirottamento quantomeno rinnovi il furto dei fondi Fas che erano destinati al sud ma che sono serviti da bancomat per le più svariate esigenze: il governo Berlusconi li utilizzò persino per pagare le multe comminate per la violazione delle quote latte da parte degli allevatori del Nord. Più fondato ancora è il sospetto che questa misura si trasformi né più né meno in una rinuncia preventiva all’utilizzo dei fondi. O, meglio, in un escamotage per risparmiare al bilancio dello stato lo stanziamento della quota di cofinanziamento nazionale, che, a ogni buon conto, viene dimezzata per le tre regioni ultime per utilizzo dei fondi. Per Puglia e Basilicata si ridurrebbe invece la quota al 40%; ma, attenzione, per le aree del nord la quota di cofinanziamento nazionale resterebbe al 50%.
Eppure tutti i dati a disposizione, a partire da quelli della Svimez, non lasciano dubbi sulla situazione drammatica del Mezzogiorno: il calo del Pil nel 2013 è del 3,5%, e dopo sei anni di crisi ininterrotta non si intravede nessun segno di ripresa. Anche perché l’economia meridionale, in questi sei anni, è calata nel suo insieme in misura doppia rispetto a quella del resto del paese. Le conseguenze drammatiche che abbiamo sotto gli occhi, e a cui il governo per primo dovrebbe dare risposta, è una situazione di sfaldamento del sistema produttivo culminato nel crollo degli investimenti: il risultato è che la Campania, il caso più critico, perde il 4% del suo pil nel solo 2013. Non aiuta certamente, in quest’ultimo caso, la politica pro-ciclica delle amministrazioni regionali che ottusamente, salvo lodevoli eccezioni come quella pugliese, ripropongono una linea di austerity in salsa locale disinteressandosi dell’apparato produttivo, al massimo ricorrendo alla vecchia carta del mattone spacciato per una risorsa anticiclica ma generando soltanto rischi ulteriori per un territorio già ecologicamente disastrato.
Insomma, quando occorrerebbe il massimo sforzo per evitare il rischio di un tracollo economico e sociale, soprattutto delle tre regioni meridionali che subirebbero i tagli così prospettati, la soluzione del governo si ferma alla “programmazione parallela”. Una formula troppo vaga e troppo spostata in avanti nel tempo per essere credibile come strumento di miglioramento dell’efficacia dell’impegno e della spesa dei finanziamenti europei. La proposta illustrata da Del Rio, che anche con i successivi chiarimenti è apparso tutt’altro che convincente, sembrerebbe piuttosto suggerire l’ipotesi di una mirata spending review sulla pelle del Mezzogiorno. Niente di diverso da quello che accade da molti anni a questa parte, e lo sprofondamento del Pil delle regioni meridionali in questi anni ne è la conseguenza diretta, mentre la grancassa propagandistica della nuova questione settentrionale favoleggiava di improbabili “sacchi del nord”. E però, nelle condizioni date, oggi si tratterebbe di un colpo mortale e definitivo.
E’ invece maturo il momento di iniziare a progettare una politica, una politica economica e industriale in primo luogo, che, superati i residui nostalgici per un passato che non può tornare e il rischio che si formino nuove oligarchie “estrattive”, sostituisca a soluzioni punitive e senza uscita un programma virtuoso di rilancio e sviluppo che il Mezzogiorno, dopo molti anni di errori e abbandono, non può più attendere. Anche perché, oggi come ieri, se non si salva il sud non si salva il paese.
Raffaele Cimmino, coordinamento provinciale SEL Napoli