Terzo settore, una riforma con molte ombre e poche luci
Il Presidente del Consiglio circa un anno fa dichiarò di voler dare corso ad una riforma del Terzo settore. Come si può da “fuori” e dall’ “alto” riformare organismi espressione autonoma della società? Giulio Marcon ha ben disvelato la paradossale pretesa con un’ immagine esplicativa: è come se il Governo dichiarasse di volere riformare le chiese!
Invece il compito auspicabile sarebbe stato un altro: quello di definire politiche per garantire nuovi spazi di azione civica e una più virtuosa connessione tra questo mondo e le istituzioni, attraverso regole chiare e trasparenti e risorse adeguate.
Insomma per la valorizzazione del potenziale democratico e sociale che questo mondo ancora esprime.
Anche il metodo ha contato: grande battage pubblicitario, reclamata velocità dei tempi, evanescenza dei contenuti e poi, qui casca l’asino, una forte delega di comando all’esecutivo. Lo strumento della legge delega è stato quello più consono a queste esigenze comunicative e politiche, ma non certo il più utile, né il più efficace.
È passato un anno, ora la Camera ha votato un testo che sarà esaminato al Senato, poi decreti legislativi: i primi effetti concreti si vedranno tra almeno tre anni.
La legge delega non ha accelerato i tempi, ha solo sottratto poteri legislativi al Parlamento che invece sarebbe stato la sede più giusta per la delicatezza e la complessità della materia.
La legge delega non è lo strumento migliore, come si è visto anche con l’impresa sociale (è stata usata allora); il Parlamento si limita a dare delle indicazioni generali ma sarà poi il Governo a stilare i decreti attuativi, film già visto con il Jobs Act, e sarà in quella sede che si giocherà la reale possibilità di innovazione a cui noi teniamo molto.
Era sicuramente lodevole e condivisibile l’intenzione di affrontare, in modo organico una materia che coinvolge soggetti differenti che sono stati nel corso del tempo in continua trasformazione, senza mai una vera strategia ed un coerente assetto istituzionale.
E’ giusta l’esigenza di mettere ordine in una confusione che caratterizza il puzzle di norme sedimentate al di fuori di un disegno complesso ed organico.
Tuttavia, si è voluto fare altro: una virata verso una filosofia imprenditoriale e privatistica che si palesa in alcune scelte esplicite e in anche in alcuni significativi vuoti. Il fuoco critico principale riguarda ciò che è previsto per l’impresa sociale con le modifiche che si sono volute testardamente apportare.
È prevista la possibilità per le imprese sociali di poter ripartirsi gli utili, cosa finora vietata. E’ da ricordare quanto segnalato dai sindacati durante le audizioni: l’impresa sociale deve caratterizzarsi per l’assenza di carattere lucrativo, la non ripartizione degli utili è la più importante discriminazione tra profit e no profit, le agevolazioni fiscali e tributarie di cui gode il no profit sono finalizzate a sostenere un’attività il cui unico fine è quello di incrementare i beni e i servizi di interesse sociale anche attraverso il reinvestimento degli utili.
Poi, si prevede per le imprese sociali un ampliamento delle attività oltre quelle istituzionali. Infine, si introduce la possibilità, finora vietata, per cui imprese private anche con fini di lucro e pubbliche amministrazioni possano assumere cariche sociali negli organi di amministrazione delle imprese sociali.
L’unico limite è il divieto di assumere la direzione, la presidenza e il controllo dell’impresa sociale stessa. Insomma, attraverso questa revisione si apriranno ancora di più le porte alla privatizzazione del welfare. Qui si apre un varco verso un possibile modello americano di no profit. Si sono create le condizioni per questa possibilità. È un welfare sostitutivo del settore pubblico e alimentato da agevolazioni fiscali e da donazioni dei privati. Una gamba privata ricca per i più abbienti e una pubblica, residuale e compassionevole. L’aspetto più grave di questa riforma è proprio questo, cioè lo schiacciamento dell’esperienza partecipativa e sociale del Terzo settore nella dimensione imprenditoriale e privatistica dei cosiddetti «mercati sociali», magari assistiti dal sistema politico.
I rischi sono tanti e li abbiamo visti con «mafia capitale», con il management della cooperativa 29 Giugno. Intendiamoci, generalizzazioni negative sono sbagliate. Lavorare come abbiamo fatto per per una maggiore trasparenza per combattere corruzione e illegalità anche nel mondo del terzo settore, non deve debordare nella criminalizzazione, nel sospetto preconcetto. Tutt’altro, noi vogliamo riconoscere e valorizzare queste esperienze nel loro significato di fondo: soggetti di costruzione di una nuova e piena cittadinanza, in cui conta la qualità sociale data dal tenere insieme: cosa si fa, chi si é e come lo fa. Uno strumento per rendere più “sociale” lo Stato. Non per sostituirlo al minimo ribasso.
Con questa riforma c’è il rischio di snaturare il Terzo settore nel business e di spingerlo ad abbandonare la sua vocazione partecipativa e di perdere, quindi, la sua articolazione sociale. Non solo le grandi, ma anche quell’insieme complesso di associazionismo, di volontariato, di un mondo ricchissimo che noi pensiamo debba essere valorizzato. E tutto si tiene. La riforma, in linea con le politiche di precarizzazione del lavoro di Poletti, non prevede, come avevamo chiesto, chiare tutele e regole per i lavoratori del Terzo settore e questo è il primo tema eluso dal testo approvato, il primo di una serie di vuoti che caratterizzano criticamente questo disegno. Manca una chiara distinzione tra l’applicazione dei contratti collettivi nazionali di lavoro e la partecipazione del volontariato alle diverse attività. È mancato il riconoscimento delle MAG, cioè delle mutue di autogestione. Non è prevista un’autorità di controllo, di vigilanza e di monitoraggio del Terzo settore, tanto sbandierata dal Presidente Renzi.
L”istituzione del Servizio Civile Universale, scelta fondamentale, è stata snaturata da una definizione “patriottica” senza più riferimenti alla difesa non armata e non sostenuta da coperture finanziarie adeguate per un servizio che vuole essere “universale”. Si sono promessi 100 mila posti, ma ne stanno garantendo molti meno. Manca l’istituzionalizzazione dei corpi civili di pace. Manca il riconoscimento dell’accesso al servizio civile degli stranieri residenti, come chiesto dal recente parere del Consiglio di Stato.
Infine, c’è il punto dolente delle risorse scarse. Riguardo al 5 per mille, se, da un lato, è molto positivo il non fare più riferimento al tetto di spesa, dall’altro, rimane aperta la necessità di facilitare l’accesso per una equa redistribuzione delle risorse sulla base della qualità sociale e democratica espressa e non della capacità “autopromozione” dei singoli soggetti.
Insomma, un’occasione con molte ombre e qualche luce.