Una questione russa più che ucraina
La prova di forza messa in scena dalla Nato a Newport non ha sortito, come era prevedibile, l’effetto voluto: la crisi ucraina resta esattamente al punto in cui era, con il rischio di una drammatica intensificazione dello scontro militare tra le parti e pesanti, incontrollabili conseguenze politiche. Oltre, ovviamente, a tutti i noti problemi relativi agli approvvigionamenti energetici e agli interessi economici e commerciali che toccano da vicino molti Paesi europei. La stessa Ue è divisa proprio per questi problemi, al di là della facciata formale rappresentata, al momento attuale, dalla politica delle sanzioni contro la Russia.
La Nato porta a casa di essere stata ribattezzata nel ruolo di colonna portante della sicurezza europea, con una presenza fissa a ridosso della Russia e in funzione anti Mosca – come Il segretario generale dell’Alleanza Rasmussen non si è peritato di chiarire – e cinque basi tra i Paesi baltici, la Polonia e la Romania, che ospiteranno le forze di rapido intervento della Nato. E si porta a casa anche quelle dichiarazioni a forte impatto simbolico, che anche Obama ha ripetuto, che l’Alleanza è là per difendere i Paesi amici. Un ruolo “storico”, dunque, che viene ribadito come per segnare la storia futura.
L’Europa ha degli evidenti problemi di politica estera e la Pesc rimane, anche alla luce del summit di Newport, una nebulosa indecifrabile.
I segnali che la tregua tra il capo del Cremlino e il premier ucraino Poroshenko è volatile ci sono tutti e le ulteriori, più dure sanzioni, previste in caso di fallimento della tregua, non potranno che inasprire i già aspri contrasti tra Mosca e l’Europa. Perché la partita è fondamentalmente questa e come evolveranno quei rapporti dipende oggi dagli esiti della vicenda ucraina.
L’accordo del “cessate il fuoco” è stato la mossa del cavallo dello stesso Putin per uscire dalla scomoda posizione di imputato numero uno del conflitto. Lo ha fatto per dimostrarsi ragionevole e soprattutto guadagnare tempo. Solo così infatti può tenere aperta la prospettiva della soluzione federativa, pensata da Mosca per mettere insieme i pezzi filorussi che vogliono andarsene. E soprattutto bloccare l’adesione dell’Ucraina alla Nato. Un aspetto dirimente, quest’ultimo, perché l’espansione a est dell’Alleanza atlantica – in chiave atlantica se non atlantista – è una delle ragioni di fondo della crisi ucraina e, soprattutto, dell’evidenziarsi di un crisi che rischia di essere insanabile tra l’Europa e la Russia.
La tregua può saltare da un momento all’altro, le notizie già arrivate dalla strategica Mariupol e da Donetsk non lasciano prevedere nulla di buono. Ma non poteva andare diversamente. La tregua è stata infatti concordata senza un’adeguata chiarificazione tra i due firmatari e senza un retroterra di coinvolgimento di chi gioca in prima persona la partita militare, da entrambe le parti e in particolare nella zona orientale del Paese. In quella parte infatti il sentimento russofilo non è soltanto una creazione fittizia, messa in scena strumentalmente dal cinismo del Cremlino. E’ anche un pezzo della storia di quella regione, a cui non è stata offerta una soluzione adeguata ai propri problemi e alle proprie aspirazioni. Anche perché la storia dei rapporti tra l’Ue e la nuova Russia non sono stati mai tali da alimentare fiducia e collaborazione presso le parti rimaste legate al vecchio regime, a cominciare ovviamente dalla stessa Russia.
I rapporti sono stati giocati soprattutto sul versante della “sicurezza” e in grandissima misura, proprio per questa ragione, sono stati mediati e resi operativi dalla Nato, che ha svolto una funzione di supplenza rispetto all’Europa, priva da sempre di una visione autonoma e di una strategia in proprio per quanto riguarda il rapporto col mondo e la politica verso il mondo. Il fantasma del nesso amico/nemico, che è duro a morire e tende a riprodursi anche quando il tuo nemico è uscito storicamente sconfitto, come fu chiaro nell’89 del dissolvimento sovietico, è stato il convitato di pietra che ha accompagnato l’evoluzione dei rapporti dell’Europa ( e dietro l’Europa gli Stati Uniti) con la Russia. Niente di peggio, quando era evidente la necessità – e si offriva l’opportunità per l’Europa – di negoziare nuovi rapporti a est, a partire ovviamente – se davvero si fossero voluti nuovi rapporti – da un rinegoziazione dell’Alleanza militare del 1949.
La Nato, concepita in funzione di forza militare deterrente rispetto e una geopolitica che non c’era più, avrebbe dovuto sciogliersi. E ricostituirsi magari, ma su basi del tutto nuove, in rapporto col mondo che era cambiato proprio nella zona nevralgica per cui la Nato era stata pensata, cioè l’Europa. Invece l’Alleanza atlantica, a dispetto di ogni ragionevole dubbio di legittimità a sopravvivere e opportunità a operare come tale, rimase.
La crisi ucraina è per tutte queste ragioni la punta dell’iceberg di una questione geopolitica carica di incognite, che si chiama appunto “rapporti tra l’Unione europea e la Russia”. C’è ormai una fitta storia di conflitti, aperture diplomatiche, minacce reciproche, logoramento delle relazioni, che hanno inizio fin dalla metà degli anni novanta del secolo scorso. La mossa principale, da un punto di vista strategico, fu da parte dell’Europa – e degli Stati Uniti- quella di favorire l’allargamento a est della Nato, presentandola come una proposta di apertura alla Russia. Gli Stati Uniti furono decisivi, aprendo fin dal 1997 a Repubblica ceca, Polonia, Ungheria e lasciando aperta per il futuro l’adesione e nuovi Paesi.
Il progetto fu a lungo osteggiato e però alla fine, per una breve fase, ritenuto accettabile dal governo russo nel quadro dei suoi nuovi rapporti con l’Alleanza militare, sanciti nel summit di Roma del 2oo2.
Ma la politica dell’allargamento continuò a tutto gas, inglobando successivamente tutto il possibile e arrivando a ridosso dei confini russi, con chiari progetti di controllo in quella direzione, attraverso un sistema di scudo spaziale a largo raggio, che mandò in tilt ogni ipotesi di amicizia ravvicinata tra Mosca e l’Europa.
Alla luce di come stanno le cose, sarebbe ora che l’Unione europea si ritagliasse uno spazio e un ruolo da soggetto responsabile, per offrire un contributo, avanzare delle ipotesi intorno a cui lavorare, insieme ai soggetti principali della vicenda ucraina, ma sapendo che essa stessa ne è attore principale. I summit militari, i giochi di guerra, i proclami di protezione a destra e manca non servono a niente così come a niente serve, quando la crisi è della natura di quella in atto, la guerriglia di sanzioni in programma per la prossima fase contro la Russia.
Bisogna lavorare – l’Europa dovrebbe lavorare – intorno alla convocazione di una conferenza di pace che avvii un percorso politico, trovi davvero una mediazione ragionevole, si misuri con le cose che sono andate troppo avanti in questi mesi di guerra, soprattutto in termini di disastri umani, e non possono tornare indietro. La conferma della sovranità dell’Ucraina e una forte autonomia per le aree russofone del Donbass, suggerisce sul Corriere della Sera Franco Venturini. Ma vedano loro. Il problema per l’Europa e per l’Italia, che ne ha in questi mesi la presidenza, è soprattutto avere un ruolo di soggetto politico, sapere che la natura di fondo della crisi parla dell’Europa e del suo futuro, e per questo assumersi la responsabilità di entrare con coraggio nel merito delle questioni. Fare le scelte giuste o dire almeno le parole giuste. Cominciando a dire, per esempio, in modo chiaro e inequivocabile, per bocca di Federica Mogherini, visto il ruolo che ha, e che arrivi a Barack Obama, visto che la Nato ha quella sponda, che non è proprio necessario che l’Ucraina entri oggi nella Nato.
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