Una strada comune, una agenda di lavoro che attraversi l’autunno. Questi i nostri primi impegni
Il nostro patto, il programma minimo che proviamo a lanciare oggi non nasce da una semplice convergenza tra stati maggiori: è figlio del trambusto di questi anni, di un lavoro costante sul merito delle cose, ma anche delle piazze e delle mobilitazioni che hanno attraversato il nostro paese sul lavoro, sulla scuola, sui diritti.
Quante volte nel corso di questo biennio è bastato guardarci in faccia per capire che avevamo non solo valori comuni, ma anche la stessa rabbia per come sotto gli occhi nostri deperivano le vecchie casematte, si svuotavano di significato, si separavano dalle loro ragioni originarie, operavano una scissione dall’alto verso il basso.
Per noi è stato quasi naturale riconoscere come problema comune l’inadeguatezza dei luoghi nei quali militavamo.
Abbiamo visto sgretolarsi sotto i nostri occhi Italia Bene Comune e il suo progetto di governo del cambiamento in nome della pratica apparentemente ineluttabile delle larghe intese, abbiamo assistito alla caduta di un vecchio gruppo dirigente e all’ascesa di una nuova razza padrona all’interno della sinistra che ha spinto alle estreme conseguenze la sua trasformazione trascinando la Repubblica in una notte dove tutte le vacche sono nere. Tutti utili alla bisogna: si chiamino Civati o Verdini, si chiamino Fassina o Alfano, si chiamino Cofferati o Sacconi.
Oggi dunque non celebriamo nessun matrimonio. Ma una conferma, la conferma di una strada comune che va intrapresa con determinazione e intelligenza in un paese dove la sinistra ha subito un processo di sradicamento sociale e culturale senza precedenti.
Noi siamo qui per la prima volta riuniti insieme perché avvertiamo un bisogno enorme, un’esigenza inequivocabile di fare cose, di mettere in piedi un cantiere della buona politica e delle buone pratiche di partecipazione che nel corso degli ultimi anni ciascuno di noi ha provato a portare avanti nella casa da cui proviene.
Dargli un profilo condiviso e unitario.
Un’agenda di lavoro che attraversi l’autunno e che riesca a costruire trame maggioritarie in Parlamento.
Dal Fisco al reddito, dalla scuola ai diritti civili.
Un Parlamento che ha subito nel corso degli ultimi mesi un processo di svuotamento delle proprie prerogative che ha fatto dire a Gustavo Zagrebelsky che viviamo in un “tempo esecutivo” dove si annulla il discorso sui fini e prevale solo quello sui mezzi.
E’ stato così sulla riforma del bicameralismo perfetto e sull’Italicum.
Renzi ha battuto in maniera forsennata più sul metodo che la sostanza, interpretando una sorta di riformismo volontaristico che smarrisce qualsiasi riferimento sull’oggetto della contesa.
L’imperativo categorico è operare delle scelte, prima ancora che soffermarsi sugli effetti che esse producono.
Il messaggio è suadente: il movimento diventa tutto in un paese bloccato da caste e corporazioni, dove l’abulia si presenta talvolta come una malattia intergenerazionale.
Tuttavia, quel movimento pende solo da una parte, verticalizza e accentra i poteri, si sofferma sulla decisione come elemento positivo in se’ senza interrogarsi sulla sua qualità e sul suo respiro.
Alla ripresa avremo un lavoro intenso da fare per sfidare Matteo Renzi sul terreno di un’innovazione programmatica che manca tuttora.
E manca anche a noi.
La proposta di togliere l’imposta sulla prima casa non è solo l’assunzione del registro culturale della destra, come abbiamo detto piu’ volte, e’ innanzitutto sbagliata in una fase in cui il nostro paese continua ad arrancare sui fondamentali dell’economia.
Ma esiste e sta facendo discutere il paese.
Ci ha portati tutti su quel terreno, ha immediatamente indotto una divaricazione manichea: la sinistra delle tasse contro la sinistra che le vuole togliere.
Vecchio schema su cui Renzi ha costruito buona parte della sua fortuna: la politica come duello permanente, lotta del bene contro il male.
Domenica scorsa il consigliere economico del Premier, nonché responsabile di quella spending review che è diventata l’ennesima coperta di Linus dei nostri tempi, ha annunciato 10 miliardi di tagli alla sanità, partendo dagli ospedali, passando per le forniture e finendo sugli esami diagnostici.
Tutto questo a copertura dell’abolizione della Tasi e per impedire che scatti una clausola di salvaguardia che avrebbe immediatamente un effetto depressivo sui consumi.
Può avere senso una ricetta degna del piccolo chimico in un paese dove la ripresa è così flebile, appesa all’andamento altalenante della congiuntura internazionale?
Abbiamo bisogno di imbastire una risposta subito. Non basta dire no.
Il tema sono gli investimenti, è lo stato che si fa innovatore perché scommette sul futuro.
Se l’Italia ottenesse mezzo punto di Pil di flessibilità nella trattativa con Bruxelles, cosa faremmo noi al posto di Renzi? Dove li allocheremmo?
Forse una sinistra che guarda ai sondaggi per le amministrative li metterebbe sulla Tasi, ma una sinistra che guarda al futuro come la nostra li metterebbe sul più grande moltiplicatore di senso che si chiama scuola, università e ricerca.
Per parlare all’Italia di qui a dieci anni, per mobilitare energie e competenze, per introdurre elementi di equità tra le generazioni, per offrire all’Italia una missione produttiva.
Dobbiamo lavorarci: per questo creeremo una commissione di parlamentari e di competenze per costruire una proposta autonoma sulla legge di stabilità, a partire dalla nota di aggiornamento al Def del prossimo settembre che sara’ su questo terreno, il primo banco di prova per il Governo.
Occorre una nostra ipotesi di legge di stabilità con articoli e coperture, su cui costruire un fronte largo, larghissimo dentro e fuori il Parlamento.
E occorre, come ha proposto Pippo a Firenze due settimane fa, anche una nostra riflessione sulla composizione del debito pubblico italiano, una sorta di audit che ci consenta di sollevare anche in Europa la questione cosi’ come ha fatto Tsipras dalla piccola Grecia.
A settembre la Presidente Boldrini ha proposto una sessione speciale del Parlamento Italiano sulla Governance europea: dobbiamo presentarci con un impianto unitario, con uno sforzo di analisi che ci consenta anche di costruire le necessarie alleanze nel continente.
E abbiamo una grande fortuna e un grande privilegio, eurodeputati – che condividono il nostro progetto – di grande esperienza e prestigio, seduti nei gruppi parlamentari a Bruxelles più rilevanti della Sinistra.
Per me, per tanti della mia generazione Sinistra ed Europa sono stati sempre sinonimi. Senza sinistra non esiste progetto unitario, senza Europa il progressismo si rinsecchisce dentro il recinto nazionale. Simul stabunt simul cadent.
O torna ad essere questo il terreno della sfida, a partire dal nodo della revisione dei Trattati, o è inevitabile il tonfo del progetto che ha cercato per 50 anni di coniugare pace e solidarietà sociale, come ci dice Stefano Fassina, perché l’euro rischia di presentarsi come la faccia naturale dell’austerity.
Con conseguenze non quantificabili in un Europa che vede consumarsi guerre ad est e a sud con una ripresa impressionante della stagione della deterrenza e della corsa agli armamenti.
Una sinistra che non ha paura anche di affrontare temi scomodi, di confine: penso alla battaglia che dobbiamo fare per inserire nel calendario una legge sul fine vita, sapendo che su questo magari non tutti siamo d’accordo, ma riconosciamo che sia giusto che il nostro Parlamento ne discuta e si orienti.
Perché avvertiamo il dovere morale di dare una risposta a chi ci chiede libertà di scelta per non finire nelle mani di qualche apprendista stregone della morte o fuggire in una clinica costosissima in Svizzera.
Viviamo in un paese strano: in una intercettazione famosa, senza alcuna rilevanza penale, il Premier conversando con un generale della Guardia di Finanza definiva Letta un incapace.
Non ho votato il Governo Letta – e non ne sono pentito – ma se oggi come è doveroso ci tocca fare un bilancio sui “capaci” che hanno sostituito gli “incapaci” qualche domanda me la pongo.
Se funziona il metodo del Fact Checking vedo che il debito come la disoccupazione vanno su. I problemi fondamentali stanno ancora tutti lì. Ieri il FMI ha detto “la ripresa c’è, ma la gelata occupazionale durerà 20 anni”. Insomma, l’operazione è riuscita, ma il paziente è morto.
Ed alcuni temi su cui Renzi aveva sfidato quelli di prima – ad esempio il conflitto di interesse – giacciono nei fascicoli della Commissione Affari Costituzionali.
E i diritti civili, legge sulla cittadinanza in primis, vengono dopo, molto dopo la stretta sulle intercettazioni. Il ddl Cirinna’, largamente insufficiente, slitta ancora una volta a settembre, mentre va in scena la pantomima di un sottosegretario che fa lo sciopero della fame contro una parte della sua maggioranza. Sciopero interrotto grazie all’intervento palingenetico del Premier che, dopo aver indicato nel settembre dello scorso anno il mese dei diritti civili, ha spostato le lancette a fine anno. Poi chissà.
Intanto il sottosegretario ha ripreso a mangiare con nostro grande sollievo, e tutti vissero felici e contenti…
Dovremo fare questo lavoro, a partire dall’interlocuzione con i corpi intermedi, ma interpellando anche associazioni, movimenti, i comuni e le regioni.
Saremo sinistra di governo anche se dimostreremo di essere capaci di confrontarci con quelle istanze e produrre soluzioni realistiche e sperimentabili.
Nel nostro documento abbiamo scritto anche che promuoveremo un tour nel paese alla ripresa per spiegare le ragioni del nostro lavoro in Parlamento. Io proporrei di concentrarlo su tre assi di lavoro: le realtà produttive sacrificate dalla crisi, le università e i centri di ricerca dove nei prossimi mesi vedremo il Bis della Buona scuola in termini di rottura con l’idea della formazione pubblica, laica ed accessibile, le periferie del nostro paese, laddove alligna una dimensione di rancore e di odio in cui cresce la distanza dalle istituzioni e dalla politica.
Questo viaggio ci serve anche per rimpolpare un’agenda di lavoro. Per renderla aderente alla realtà.
La sfida è la conoscenza delle reali condizioni del Paese. Conoscenza che parte dalla pedagogia dell’ascolto e dalla metodologia, permanente, dell’incontro tra istituzioni e territorio, corpi sociali, figure vecchie e nuove corrose o snaturate dalla trasformazione produttiva. E al tempo stesso la necessità per noi di un dialogo diretto con l’intellettualità diffusa nel territorio, con i tanti saperi che già compiono sul campo un’inchiesta conoscitiva del Paese, spesso nella più totale disattenzione o indifferenza della politica, anche la nostra.
Occorre un’inchiesta sull’Italia, su come le rendite si riarticolano e incidono sulle scelte di chi governa, su come la rotazione delle classi dirigenti si sia fermata superficialmente al ceto politico ma non ha intaccato affatto la dimensione dell’impresa familiare piuttosto che delle mafie professionali, su come la crisi dell’unita’ nazionale stia allargando il solco tra aree del paese.
Credo che sia utile la proposta lanciata da Possibile di un Indagine sul sud, rimettere al centro la questione meridionale come questione mediterranea non e’ un esercizio intellettualistico ma una esigenza inderogabile per chi oggi vuole trasformare questo paese.
Le mafie hanno penetrato il tessuto economico dell’intero paese, confondendo le acque tra stato e antistato, riprendendo il controllo di aree del territorio e facendo leva sulla debolezza di un sistema imprenditoriale che preferisce subappaltare tutto al massimo ribasso pur di non perdere fette di guadagno garantito.
Il nodo è sempre lo stesso: l‘equilibrio tra potere e società. Renzi ha rotto quell’equilibrio, ha annichilito le spinte critiche, riprodotto un neocentralismo fondato sulla scarsita’ delle risorse da trasferire e sul principio secondo cui le autonomie sono portatrici naturali di ritardi burocratici e di particolarismi ancestrali.
Non vedo una strada piana, liscia per noi.
Noi parlamentari abbiamo non solo la responsabilità storica di non far scomparire l’idea di una sinistra dal panorama istituzionale di questo paese. Se così fosse basterebbe una lista elettorale che punti a superare uno sbarramento e garantirsi un diritto di tribuna. Ma è quello che siamo già oggi, una porzione piccola di tribuna che si limita ad una funzione spettatrice, di commento e quando andiamo bene di interdizione negativa.
Non è questa la nostra ambizione. Abbiamo introiettato la lezione di Gramsci sulle piccole e grandi ambizioni. Chi coltiva le piccole ambizioni è pericoloso per sé e per gli altri. Chi invece vuole portare avanti grandi ambizioni è capace di muovere le coscienze, di fabbricare un nuovo senso comune, una missione che sia non solo quella di descrivere, ma di guidare i processi di cambiamento.
Questo è il nostro cimento dei prossimi mesi.
Dovremo prendere l’abitudine di riunirci sempre più spesso anche per la semplice considerazione che quando si è di più a ragionare, alla fine si ragiona e si decide meglio.
Il nostro obiettivo dichiarato è arrivare in tempi rapidi a un unico gruppo parlamentare alla Camera come al Senato.
Nichi Vendola già da maggio scorso ha detto che il gruppo di Sel è disponibile a sciogliersi e rimettere in discussione tutto per un’aggregazione più grande e plurale.
Il gruppo parlamentare dovrà essere uno strumento, una postazione privilegiata su cosa si muove nella politica e nei luoghi che prendono le decisioni sulla nostra vita. Un luogo di ricerca e di combattimento. L’opposizione che oggi non c’è, schiacciata come è dall’estetica dell’invettiva del M5S e da una destra che implode mentre va lepenizzandosi.
Un’opposizione senza aggettivi. Perché quella che sta disegnando Renzi a suo piacimento e con il contributo dell’Italicum gli consentirà di governare sulla paura per i prossimi dieci anni.
Riproponendo una democrazia bloccata dove o sei apocalittico o sei integrato.
Noi non vogliamo essere né l’uno né l’altro: vogliamo essere i prossimi che governeranno questo paese.
Vogliamo essere quelli che pongono il tema politico ed etico che – se ti presenti con un programma elettorale – non puoi fare esattamente l’opposto quando arrivi al potere. Dobbiamo dire con forza nei prossimi giorni che qualora dovesse formarsi il nuovo raggruppamento dei verdiniani a sostegno del governo, Renzi deve tornare alle camere e chiedere la fiducia.
E’ un fatto di igiene democratica.
Non ci accontentiamo di leggere da una stampa sempre più embedded gli spifferi delle numerose cene a cui ha partecipato il nostro Denis. Il contenuto del menu il Presidente del Consiglio ha il dovere di declamarlo davanti agli italiani!
Renzi non è un innovatore, nel senso di aver introdotto nella politica idee e pratiche del tutto differenti da prima. Berlusconi lo è stato. Renzi è piuttosto il traduttore di politiche altrui, in conformità con la lettera della BCE del 2011. E “presta” il partito di cui si è impossessato, a un disegno già prestabilito. Sul piano del modello sociale cui vuole ridurre l’Italia, le idee non vengono dalla Leopolda, né da uno slittamento progressivo del suo partito da sinistra verso il centro o la destra, vengono al di fuori della politica. Vengono dalla cultura aziendale. E occorre precisare che questa cultura aziendale non è né quella ben disegnata dalla Costituzione (la funzione sociale dell’impresa), né quella che a tratti ha fatto grande l’Italia in tema di politiche industriali: la comunità di Olivetti, ad esempio.
E’ la cultura aziendale dell’epoca globalizzata, quella nella quale la politica è lo strumento applicativo, sul piano istituzionale, del dominio dell’economia e della finanza che svalorizza le competenze dell’uomo e schiaccia l’ambiente in nome della voracita’ dei profitti. Che il modello sia Marchionne, lo si vede bene per il fatto che la “filosofia” renziana delle “riforme” segue solo e soltanto questo leit motiv: dalla figura di dominio del preside nella scuola, a quella del partito nazione nella legge elettorale, al ruolo di comando del governo nella Rai, and so on.
L’attacco al sindacato è un tratto saliente di questa svolta. Dobbiamo difenderne la funzione in sé, ma avere anche la forza e il coraggio di affrontare il capitolo dei suoi ritardi. Per tutti, anche per la sinistra sociale si pone il tema della sfida democratica, della rappresentanza di interessi frammentati, di intercettare le domande di libertà e di autonomia delle giovani generazioni. Lo diciamo perché vogliamo essere la sinistra che dopo anni di equidistanza tra operai e imprenditori, dal Lingotto in poi, vuole rimettere al centro della propria identità il valore sociale del lavoro.
Partiamo in quaranta convinti che nei prossimi mesi saremo molti di più.
Non perché siamo avvezzi allo scouting ma perché possiamo diventare un luogo attrattivo, unico spazio libero dove portare avanti delle idee senza torsioni disciplinari né maquillage culturali.
E saremo il gruppo parlamentare che cambierà il segno di questa legislatura, irrompendo sulla scena e modificando non solo gli equilibri politici nelle istituzioni, ma anche i contenuti dell’agenda del Paese.
Ha ragione Cofferati, senza essere condizionati né ossessionati da imminenti scadenze elettorali.
Perché siamo quelli delle riforme per i molti e non per i pochi. Sembra minimalista, ma in questo paese è una rivoluzione.
La relazione che ha introdotto i lavori all’assemblea dei parlamentari di Sel, ex Pd ed ex M5S svoltasi il 28 luglio 2015, Roma
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