Usa, mossa presidenziale da midterm
Il primo risultato delle elezioni americane di midterm, segnate dalla vittoria dei repubblicani sia al Congresso sia al Senato, è stato il passo compiuto da Barack Obama verso un rinnovato impegno militare in Iraq. I repubblicani e soprattutto il Pentagono, nei mesi scorsi, ne avevano in vario modo sottolineato l’opportunità e la necessità, affermando che senza un intervento di terra da parte degli Usa i miliziani jihadisti non possono essere sconfitti. Una scelta di cui invece il presidente Obama aveva più volte negato l’utilità, ribadendo che dalla vicenda irachena gli Usa erano usciti definitivamente e i soldati americani non vi avrebbero più rimesso piede. I raid dei droni, aveva anche più volte ribadito, erano l’unico aiuto che il Pentagono avrebbe fornito al governo di Baghdad per respingere l’avanzata del Califfato nero.
Nel mondo globale in continuo cambiamento, anche a causa di guerre di tutti i tipi, in cui Washington ha giocato spesso un decisivo ruolo propulsivo, le mosse politiche degli attori globali cambiano ovunque a grande velocità, stando dietro soprattutto a ragioni di contingenza politica immediata più che di grande strategia. L’inquilino della Casa Bianca, condizionato dalla sindrome dell’”anatra azzoppata” – formidabile meccanismo di checks and balances dei poteri tra Presidenza e Congresso – e sapendo che nella prossima fase non potrà fare granché senza l’appoggio dei repubblicani, ha deciso a tempo di record di autorizzare l’invio in Iraq di 1500 soldati, un numero quasi eguale a quello dei militari già inviati a Baghdad e a Erbil negli ultimi mesi. Un bel numero di soldati insomma, tanto per cominciare. Inoltre Obama ha chiesto al Congresso lo stanziamento di sei miliardi di dollari per far fronte ai nuovi impegni militari.
Un’invasione temporanea con nobili fini, per mettere davvero fine al pericolo che l’onda jihadista dilaghi ovunque. E’ questo il messaggio rassicurante che Obama cerca ora di veicolare verso l’opinione pubblica statunitense, ben sapendo che il Paese, sul capitolo di nuovi interventi militari, è invece fortemente diviso tra chi vorrebbe un ruolo di politica estera più incisivo da parte degli Stati Uniti, con la riconferma, in qualche misura, dello spirito imperiale di bushiana memoria , e chi invece non vuole saperne di dispendiose spedizioni militari all’estero. La memoria dei molti morti nelle guerre di Bush è ancora viva e la situazione sociale, visibilmente segnata da problematiche di forte disagio e disincanto, non fornisce certo un adeguato viatico per accogliere le rassicurazioni presidenziali sull’opportunità di ricominciare daccapo con le spese militari.
Il rischio è infatti che davvero si ricominci daccapo. Secondo Obama i soldati statunitensi dovranno formare e addestrare i militari iracheni e curdi e proteggere gli interessi di Washington nell’area. Non saranno truppe combattenti, insomma. Il che è facile a dirsi ma piuttosto difficile a realizzarsi, sia perché in un Paese dove un terzo del territorio è occupato dai gruppi in armi dell’Is e dove il fronte è lungo e mobile, le dinamiche complessive, allo stato delle cose, non possono che favorire i miliziani; sia anche, soprattutto, perché il condizionamento politico esercitato dai repubblicani nei confronti della Casa Bianca difficilmente si attenuerà nei prossimi mesi. La partita che si è aperta per Obama ha insomma di nuovo potenzialità da guerra sul terreno e se Obama ha paura di evocare la possibilità che altri soldati americani muoiano in Iraq, l’evidenza dei fatti dice che una tale possibilità c’è. Le truppe Usa saranno dispiegate infatti anche nella provincia occidentale di al Anbar, zona sunnita al confine con la Siria, dove i jihadisti non solo controllano gran parte del territorio ma sono pure all’offensiva.
Ed è soprattutto sul piano strategico che la questione mostra tutte le sue incertezze e pericolosità. Obama sa da tempo che non può tirarsi fuori da un’area nella quale si vanno ridefinendo i rapporti di forza tra le potenze grandi e piccole locali e che per gli Usa quella zona del mondo continua a essere decisiva, non fosse altro che per il fatto che gli alleati o ex alleati degli Usa – le petro-monarchie e la Turchia – svolgono ormai nell’intera regione un ruolo più decisivo che in passato, mentre la forza e la capacità egemonica di Washington sulle potenze locali, al di là della indiscutibile superiorità e potenza militare degli Sati Uniti che tale rimane, non è più quella di qualche anno fa. Nel devastante contrasto tra la parte sunnita e la parte sciita – il nocciolo duro del conflitto a vasto raggio – giocano ormai con tutta evidenza precise strategie delle potenze costituite dell’area: affermare l’egemonia sunnita su tutta la regione mediorientale è da sempre l’obiettivo di Arabia Saudita, Qatar, Emirati Arabi e altri regimi feudali dell’area, che hanno creato, addestrato e finanziato i vari gruppi jihadisti in funzione antisciita. Lo scompaginamento di quello che era fino ad alcuni anni fa il Medio Oriente e che ora è soltanto un aggrovigliato puzzle di contrasti apparentemente etnico-confessionali è funzionale appunto a una ridefinizione dei rapporti di forza complessivi. L’idea di chi negli Usa punta a riabilitare il proprio ruolo di gendarme assicuratore della regione non ha oggi grandi chance di credibilità né soprattutto di accoglienza. Anche perché Obama come vocazione personale, vorrebbe cercare di attuare una politica equilibrata anche verso i Curdi e l’Iran, il che contrasta com’è ovvio con gli interessi di Ankara e dei Sauditi. Le guerre portano dove portano e le alleanze conniventi spesso generano mostri e mostruosità. Gli Usa hanno sempre saputo tutto dei loro alleati sauditi.
Angelo Panebianco, sul Corriere della Sera, ha scritto che la sconfitta di metà mandato subita da Obama può aprire una fase di rinnovato vigore americano in politica estera e trasformare la sindrome dell’”anatra azzoppata” in un’occasione di rilancio del presidente Obama.
Il rinnovato vigore di cui parla Panebianco dovrebbe basarsi sul compromesso tra Obama e i repubblicani da raggiungere in tre importanti ambiti: in primis ovviamente la guerra al Califfato e a seguire la trattativa con l’Iran sul nucleare (la vittoria repubblicana dovrebbe o potrebbe, secondo Panebianco, dissuadere Teheran dalle astuzie delle continue tergiversazioni), e in ultimo, la partita apertasi con la discussione sul trattato Tpp (Trans – Pacific Strategic Economic Partenership), un accordo di libero scambio che va avanti dal 2008 con undici Paesi che hanno a che fare con la sponda dell’Oceano Pacifico (Canada, Messico, Australia, Nuova Zelanda, Cile, Perù, Vietnam, Malaysia, Brunei e Singapore, in ultimo è entrato il Giappone) che coprirà oltre il 40% del commercio mondiale. Nelle intenzioni degli Usa – soprattutto i repubblicani – dovrebbe essere un poderoso strumento di contenimento degli effetti espansivi dell’influenza cinese in quella parte del mondo. Per i Paesi interessati non sarà certo un pranzo di gala, per esempio per gli interessi agricoli del Giappone.
La politica estera, com’è noto, non è stata mai il terreno più congeniale ai presidenti di provenienza democratica mentre per i repubblicani ha avuto sempre quell’impronta apertamente imperiale, di cui George W. Bush è stato per antonomasia l’apprendista stregone. Obama, al di là delle benevole intenzioni e dichiarazioni di cui fa sfoggio, non solo ha messo in evidenza una debolezza estrema nel trovare in tempo le soluzioni più adeguate – per esempio verso il settario governo di Maliki che ha definitivamente messo a soqquadro l’Iraq – ma soprattutto ha evidenziato l’assenza di una qualsiasi visione del mondo in una fase in cui tutto del mondo sta cambiando e non basta certo per una potenza mondiale come gli Usa ritirare le truppe da paesi occupati, lasciandoli nel disastro e tener ferme le bocce cercando di non farsi sopraffare dalla Cina.
Questa politica non basta in sé perché mai come oggi ci sarebbe bisogno di lungimiranza e saggezza, forti organizzazioni capaci davvero di svolgere un ruolo terzo, come non riesce più a essere l’Onu, e politiche fortemente di condivisione da parte dei Paesi più forti verso quelli più deboli, atte a depotenziare i conflitti e gli appetiti unilaterali e altro di questo tipo. E anche perché l’evoluzione dei rapporti di forza riguarda orami direttamente gli stessi Stati Uniti e il suo ruolo.